Il crimine e il silenzio

Roberto Persico

Il libro di Anna Bikont, Einaudi, 536 pp., 38 euro

Abbiamo fatto tutti il tifo per i polacchi “buoni”: per la loro disperata difesa nella morsa fra tedeschi e sovietici, per la rivoluzione pacifica di Solidarnoscść, per la lotta per ristabilire la verità su Katýn. Ma i popoli “buoni”, nella storia reale, non esistono. Il fiero nazionalismo dei polacchi e il loro radicato cattolicesimo hanno infatti come tragico risvolto un almeno altrettanto fiero antisemitismo, un’almeno altrettanto radicata avversione per il “popolo deicida”. A scoperchiare il vaso di Pandora è stato un libro del 2000, I carnefici della porta accanto di Jan Gross, dedicato alla strage di Jedwabne, cittadina sul confine orientale della Polonia dove il 10 luglio del 1941 tutti gli ebrei del luogo furono ammassati in un fienile che poi venne dato alle fiamme. A guerra finita, sul posto venne deposta una lapide che attribuiva il crimine ai tedeschi. Lo studio di Gross invece punta il dito contro i polacchi: sono stati loro a rastrellare gli ebrei casa per casa, a radunarli nella piazza principale, a condurli al fienile tra beffe e percosse, ad appiccare il fuoco. E poi, a strage compiuta, ad accaparrarsi i beni delle vittime, dalle case fino all’ultima suppellettile. L’uscita del libro fu seguita da reazioni scomposte: i gruppi della destra nazionalista e ampi settori del clero accusarono Gross di raccontare frottole al soldo dell’“internazionale sionista” che voleva spillare quattrini ai polacchi, infangando la loro memoria.

 

A questo punto Anna Bikont, giornalista di Gazeta Wyborcza, la gloriosa testata nata con la fine del comunismo e da sempre alfiere dei valori liberali, si è messa all’opera per cercare di chiarire i contorni della vicenda: Il crimine e il silenzio – uscito in Polonia nel 2004 – è il risultato di questo lavoro, frutto di decine e decine di incontri, sopralluoghi, interviste. Il quadro che emerge è impressionante. Non solo per la puntuale ricostruzione del crimine, con i dettagli raccapriccianti dell’azione e nomi e cognomi degli autori. Ma anche, e forse soprattutto, per la rivelazione dell’antisemitismo violento diffuso nel paese. Un antisemitismo ben radicato fin dagli anni Trenta, con inni liturgici che cantavano “Dio ci liberi dai giudei”, la progressiva espulsione dalle scuole di alunni e insegnanti di religione ebraica, la moltiplicazione di negozi con cartelli tipo “comprate cristiano”. Ma – e questo è il dato più sconvolgente del lavoro – è un antisemitismo ben radicato ancora oggi. Salvo poche coraggiose eccezioni, infatti, la popolazione di Jedwabne difende compatta la tesi negazionista: sono stati i tedeschi, la colpa è degli ebrei che ci sfruttavano e che ci denunciavano ai sovietici; e chi esce dal coro è segnato a dito, emarginato e minacciato. Ma anche nel resto del paese l’ostilità contro gli ebrei e i loro “leccapiedi” è diffusa e pesante: opuscoli e giornali, trasmissioni radio e interviste, insulti e minacce per strada documentano che l’antico mostro è tutt’altro che morto e sepolto.

 

Anna Bikont
Il crimine e il silenzio
Einaudi, 536 pp., 38 euro

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