Il tu falsovero di Catullo, che ha inventato l'amore

Edoardo Rialti

Nei versi del poeta l’amore è la rivoluzione di un cosmo privato che contesta e se ne infischia di quello pubblico, della moralità formale

L’amore, un’invenzione del XII secolo. Henri Marrou iniziò un libro sui trovatori con questa citazione d’un giornalista americano, e anche De Rougemont analizzò quella che considerava “la rivoluzione psichica” medievale. Eppure, leggendo la nuova edizione integrale delle “Poesie” di Catullo (Einaudi, a cura di Alessandro Fo, corredata da introduzione e note persino commoventi nella loro commistione di precisione e coinvolgimento), viene naturale retrodatare quella definizione di oltre mille anni, ai carmina del poeta di Verona e dei suoi amici.

 

“Poetae novi”, li chiamò con disprezzo Cicerone, ed è così facile che quell’aggettivo nella mente rievochi e consuoni invece con la definizione d’un altro gruppo di giovani poeti, gli stilnovisti. Fo li definisce felicemente “i ragazzi degli anni Ottanta del I secolo a.C.”.

 

Nei versi del più celebre tra loro c’è già tutto quello che conta, espresso con eleganza raffinata, in un caleidoscopio che comprende il tenero e l’osceno, la delicatezza per i lutti degli amici e il sarcasmo per l’amata d’un tempo che adesso “sguaina” i maschi nei vicoli, le autentiche condizioni del paesaggio emotivo e spirituale nel quale, paolinamente, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”; dai versi dei grandi poeti ai cantautori e ai successi radiofonici del rock e del pop, da Baudelaire a Zivago che contempla Lara, non abbiamo mai smesso di amare, gioire e soffrire così. “Odi et amo… excrucior-odio e amo, e ci sto crocifisso”. “Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera” supplica Catullo mentre fa l’amore con Lesbia e Proust lo echeggia ancora: “Ciascun bacio chiama un altro bacio. Ah, nei primi tempi che si ama, i baci nascono tanto naturalmente! Pullulano senza tregua, e sarebbe più difficile contare i baci che si è dati in un’ora che contare i fiori d’un campo nel mese di maggio”. Il poeta torna a casa dopo una serata d’arguzia (“E così me ne andai di là incendiato/ dal tuo estro, Licinio, e dal tuo spirito / sì che né, me infelice, avevo fame / né chiudeva gli occhietti a quiete il sonno, / ma, indomabile e folle, in tutto il letto / mi giravo, smanioso della luce / per parlarti di nuovo e stare insieme”) e ancora una volta si pensa al giovane Dante che vagheggiava una fuga con gli amici e le amate su una barca magica, dove “di stare insieme crescesse ’l disio”.

 

In Catullo l’amore non è semplicemente la passione divorante (che consuma persone e regni e da cui si pregava d’essere risparmiati), e neppure la pace e la stabilità d’un posto nel mondo (per il quale si può rinunciare persino all’immortalità, e rituffarsi nelle acque del tempo e della morte, come Odisseo per Penelope), ma la rivoluzione di un cosmo privato che contesta e se ne infischia di quello pubblico, della moralità formale, e ribadisce che solo l’amore, l’amicizia e la poesia, “piccoli nulla”, sono la luce che illuminano la vita, insidiata dalla “cieca notte”. L’arrivo di Lesbia al primo appuntamento è proprio narrato come un’alba privata. Catullo la sente sopravvenire come una persona che poggi con leggerezza su sandali di cui si coglie il sottile conversare con il selciato: memoria e invenzione li designano con una aggettivo (argutus) la cui intensione semantica va a collocarsi tra “garrulo, chiacchierino, spiritoso” e “musicale”… “la donna si staglia su quel limitare in un fulgore di luce (Fo)”. Eppure ciò che si irradia da quella che Catullo osa definire al tempo stesso “mea puella” e “candida diva”, la mia ragazza e la dea luminosa, va custodito con un patto di dedizione e amicizia santa, altrettanto morale delle relazioni tradizionali. Come sottolinea Fo, Catullo propone e brama “un modello di rapporto che nasce come irregolare – a quanto ne sappiamo, la sua storia inizia con un adulterio – non senza fondarlo su una sua ideologia che si richiama a vecchi valori alti e condivisi come la pietas e la fides, nel quadro di un nuovo e ‘alternativo’ schema di rapporti come il foedus”. Ed è il tradimento di Lesbia a questo orizzonte che scatena le invettive del poeta: “Moecha putida, rende cocidillos – troia lercia, su, rendi quei blocchetti!”. Resta la memoria della luce (“Fulsere quondam candidi soles tibi-rifulsero, una volta, soli a te splendidi”), “il tono amaro del rimpianto e quasi, a volte, della delicata apprensione per un essere tuttavia amato che si è buttato via” (Morelli), la sofferenza perché “difficile est longum subito deponere amorem – è difficile, un lungo amore, deporlo all’istante”, e la profonda e amara intuizione che il tradimento può alimentare la spuma del desiderio e della possessività erotica, ma prosciuga il mare profondo dell’amicizia: “Un torto tale costringe / chi ama a amare di più, ma a voler bene di meno”. Chiedersi quanto ci sia di vero o falso in tutto questo è sterile. Sereni l’avrebbe mirabilmente sintetizzato nel “tu falsovero dei poeti”: sappiamo bene che anche i “tu” dei nostri amori, rievocati, inseriti nelle storie con cui leggiamo il dipanarsi dei giorni, sono altrettanto profondamente fittizi, ricostruzioni “che ci raccontiamo” e al contempo come persino le narrazioni più artificiali custodiscano ed esprimano una verità che supera ogni cronaca e pettegolezzo. Al pari del nostro io, che in queste lodi e insulti, in queste tristezze e accuse e perdoni si esprime, altrettanto falsovero.

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