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Un Foglio Internazionale

Quando il fact-checking e la lotta alle fake news nascondono la censura

A volte coloro che rivendicano il titolo di correttori a servizio dell’esattezza fattuale sono militanti che vogliono determinare il senso degli eventi, scrive il Figaro

Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio internazionale, l'inserto a cura di Giulio Meotti con le segnalazioni dalla stampa estera in edicola ogni lunedì


      

Secondo il saggista quebecchese Bock-Côté, autore nel 2019 del libro “L’empire du politiquement correct” (Éditions du Cerf), quelli che rivendicano il titolo di correttori a servizio dell’esattezza fattuale sono dei militanti che vogliono soprattutto determinare il senso degli eventi.

    

L’arrivo di varie squadre di “fact-checking” nelle grandi redazioni è stato accolto come una tappa indispensabile nella lotta contro le notizie false e per la sanificazione del dibattito pubblico. Queste squadre sono incaricate di verificare le presunte informazioni “problematiche” che circolano su internet e contrastare le presunte voci assurde. Ma quelli che rivendicano il titolo di correttori a servizio dell’esattezza fattuale sono dei militanti che vogliono soprattutto determinare il senso degli eventi, proscrivendo qualsiasi interpretazione che non rientra nelle loro opinioni. Jean-Pierre Denis, ex direttore del settimanale La Vie, l’ha appena vissuto sulla sua pelle. Sabato 1° agosto, con un messaggio pubblicato sul suo account Facebook, è stato il primo giornalista ad annunciare che all’Assemblea nazionale, nel quadro del progetto di legge bioetica, era appena stato adottato un emendamento che aggiungeva ai motivi che autorizzano l’aborto farmacologico fino al nono mese il “disagio psicosociale”.

   

Avanzando un commento personale a questo fatto, Jean-Pierre Denis si interrogava sul rischio che alla lunga questo emendamento possa contribuire a trasformare l’interpretazione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, allineandola per tappe all’aborto farmacologico. E Denis ha aggiunto al suo testo un estratto del progetto di legge bioetica. Peccato che il suo messaggio… sia stato censurato dal gigante di internet. Facebook non l’ha avvertito, il giornalista è stato allertato da alcuni utenti che seguono il suo account e che, desiderosi di leggere il suo testo, venivano avvisati da Facebook che Jean-Pierre Denis diffondeva un’informazione “parzialmente inesatta” (sic). L’interessato è un giornalista rinomato e integro. Da dove proveniva dunque questa stigmatizzazione che lo presentava come un diffusore di disinformazioni? E’ “Checknews”, il fact checking di Libération, che ha una partnership con Facebook. Si è permesso di etichettare il messaggio di Jean-Pierre Denis in seguito a una denuncia anonima, e senza mai sentire il bisogno di contattarlo. Dal canto suo, Facebook ha dichiarato che il testo del giornalista incolpato era stato controllato da dei “media di fact-checking indipendenti”. Jean-Pierre Denis ha tenuto testa a “Checknews”, dicendo sul suo account quello che pensava di questi commissari politici con fermezza, precisione e ironia. La sua determinazione ha ripagato. L’affaire ha provocato una piccola tempesta sui social network. E in maniera pietosa, il servizio di Libération ha dovuto scusarsi, o meglio ha fatto finta di fare ammenda. La cellula di “fact checking” ha moltiplicato le giustificazioni strampalate per non ammettere che la loro denuncia era una forma di censura. La cellula ha sostenuto che il testo di Denis era “parzialmente falso” e “incompleto”, ammettendo allo stesso tempo la propria “manchevolezza” e promettendo di comportarsi meglio la prossima volta. I decodificatori di Libération si sono permessi in maniera pura e semplice di determinare qual è l’interpretazione consentita di un emendamento e quella che deve essere proibita. Si è trattato, concretamente, di fissare i termini del dibattito pubblico e di indicare i limiti che non bisogna superare. Libération ha lanciato in questo caso un richiamo all’ordine.

   

I “verificatori” non sono sempre neutri e alcuni si comportano obiettivamente come dei poliziotti del pensiero. Spesso, questi ultimi, hanno come funzione quella di impedire di dire apertamente ciò che il regime cerca di fare discretamente, senza confessarlo, senza rivendicarlo. Ritroviamo la questione delle nuove forme di censura e del dispositivo che rende possibile la sua applicazione. I social network, un tempo, hanno contribuito a liberare lo spazio pubblico da un sistema mediatico autoritario che vuole mantenere il dibattito collettivo all’interno di parametri molto stretti. Ma alcuni giornali, oggi, in nome della loro “credibilità mediatica”, cercano in realtà di riprendere il controllo del dibattito pubblico. Tramite loro, il regime della diversità ritrova il potere di designare i contraddittori legittimi e quelli che non lo sono. Succede anche che i social network si permettano in maniera pura e semplice di mettere al bando delle correnti di pensiero, accusandole di alimentare “l’odio”, come una volta un nemico veniva accusato dal regime di essere contro-rivoluzionario. In Canada, sempre più giornali bollano il concetto di immigrazione illegale coma una formula che rientra nel campo delle “fake news”. Solo la formula immigrazione irregolare è autorizzata. Potremmo moltiplicare gli esempi.

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