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Uffa!

Il tavolo da ping-pong, le scazzottate e quel che resta del Maggio '68

Giampiero Mughini

Le Goff e la breve stagione delle grandi illusioni. Che cosa è rimasto dello spirito di quei giorni e di quelle notti in cui sembrava che tutto della realtà fosse passibile di un cambiamento “rivoluzionario”?

Devo a Giulio Meotti, che non ne perde una, la segnalazione della comparsa in libreria dell’ultimissimo libro, Mes Années Folles (Robert Laffont, 2023), dell’autorevole professore universitario francese Jean-Pierre Le Goff (nato nel 1948). Uno che nel dopo maggio 1968 s’era dato anima e corpo alla militanza in uno sciagurato groupuscule filomaoista, per poi ravvedersi, raschiare via da sé quel cumulo di scempiaggini al limite della caricatura e scriverne con rara intelligenza autocritica. Da questo e da altri suoi precedenti libri il gauchisme non soltanto francese – che Le Goff racconta e viviseziona quasi giorno dopo giorno per averlo vissuto in prima persona, a partire dai suoi anni universitari a Caen – ne esce a brandelli, quale il tempo di un accecamento “adolescenziale” da parte di un’intera generazione nel comprendere e analizzare il funzionamento di una società industriale moderna. 

Che cosa è rimasto dello spirito di quei giorni e di quelle notti del “maggio 1968” in cui sembrava che tutto della realtà fosse passibile di un cambiamento “rivoluzionario”, termine abusatissimo seppure chi lo usava non sapesse dire che cosa intendeva? I grandi cortei libertari di una generazione che aveva avuto la fortuna di vivere in una società il cui benessere medio era cresciuto vertiginosamente, gli slogan così incantevoli a sentirli ritmare dalle voci di ragazzi e ragazze che volevano tutto e subito, la società francese raccontata con gli unici colori del tutto bianco o del tutto nero, l’idealizzazione fantasmatica di una classe operaia immaginata come avrebbe dovuto essere e non come era davvero. E dunque? La strabocchevole vittoria gollista alle elezioni del giugno 1968, e ancor prima la gigantesca manifestazione parigina pro De Gaulle, avrebbero dovuto pur insegnare qualcosa. Niente di tutto questo. Che fanno degli “adolescenti” quando cozzano il muso contro una realtà ben diversa da quella che loro si erano immaginati? La sparano sempre più grossa e all’infinito. E’ lampante che gli slogan mutuati dalle opere e dalle politiche di Lenin, Trockij, Mao, Che Guevara non hanno niente a che vedere con la realtà vera dell’Europa del secondo Novecento, ma che importa? Loro continuano a ulularli allo spasimo quegli slogan e ne vengono scissioni e controscissioni da mini gruppetti che a forza di slogan si avventano gli uni contro gli altri.

C’ero in quei mesi a Parigi, dove avevo insegnato lingua italiana in uno dei più grandi licei francesi, la cui organizzazione e attrezzatura erano lunari rispetto a consimili istituti italiani. Abitavo alla Maison d’Italie, nel quattordicesimo arrondissement parigino. Mentirei se dicessi che il putiferio del “maggio” non aveva cambiato in nulla la nostra vita reale, di studenti che abitavano alla Cité Universitaire. No, no, l’aveva cambiata. Innanzitutto aveva buttato giù l’obbligo che le nostre “petites amies” venute a farci visita dovessero abbandonare la camera non oltre le sette di sera. No, d’ora in poi potevano restare a dormire e confesso che per molti di noi fu una novità non da poco. E poi c’è che misero un tavolo da ping-pong nei locali della Maison, e per me che amavo molto questo sport fu anch’essa una bellissima novità, e ricordo ancora il momento in cui stavo giocando una gran bella partita d’attacco sotto gli occhi ammirati di una giovane turista italiana che dire attraente era poco. E poi ancora misero in funzione un televisore in una stanzuccia a pianterreno, una stanza dove eravamo sempre sei o sette a sogguardare le mirabilie non soltanto atletiche delle Olimpiadi dell’ottobre 1968, quei due atleti neri americani che sollevano il pugno quando si ritrovano sul podio dei 200 metri, quell’altro atleta nero americano che nel salto in lungo rimase in aria un quarto d’ora prima di atterrare e fare il record del mondo. Vi sto parlando di modifiche della vita reale di ogni giorno, e del resto che c’è di più importante specie se paragonato alle illusorietà e alle fantasticherie del reame ideologico in cui scorrazzavano abitualmente i “groupuscules”? 

Mi rammento molto bene di tutto questo. Così come mi rammento che alla prima “manif” autunnale, quella che avrebbe dovuto ricreare lo sconquasso reale e sentimentale del “maggio” precedente, e alla quale ero accorso come a un appuntamento dell’anima, il fatto più rilevante fu una micidiale scazzottatura tra i servizi d’ordine di due diversi e rivali “groupuscules” a chi dei due dovesse prendere la testa del corteo. Inimmaginabili imbecilli, Le Goff a quel tempo uno di loro, e lui lo racconta la volta che aveva appena preso la parola da maoista in un consesso studentesco e immediatamente i “trockisti” gli si avventarono addosso. E lascia senza fiato che quelle porcate venissero da una popolazione studentesca che avrebbe dovuto essere la più raffinata d’Europa, se non altro a giudicare dal numero di librerie del Quartiere latino dove noi studenti eravamo come accampati, librerie che lungo quelle strade e straduzze erano nell’ordine di una porta sì e una porta no. (Anni fa, l’ultima volta che sono stato a Parigi, di quelle librerie ne era sopravvissuto forse un decimo, forse meno). C’è niente da fare, non c’è scampo contro quel tumore intellettuale che sono le ideologie.

Uno che insegnava all’università di Caen e che era uno degli intellettuali che aveva alimentato la nascita della “nuova sinistra” francese, Claude Lefort, chiese una volta a Le Goff com’è che uno con la sua intelligenza potesse essere “maoista”. La risposta del Le Goff di allora fu disarmante: “Mi rifiuto di giocare il ruolo che la società vorrebbe fare giocare a quelli come me. C’è stato il Maggio 68, il movimento studentesco, gli scioperi operai e delle lotte che si sviluppano ovunque nel mondo. In tutto questo mi ci sento parte attiva”. Chiacchiericcio da adolescenti.

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