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Uffa

Tove, Sonja, Hans. Volti e storie dei bambini ebrei danesi scampati alla morte

Giampiero Mughini

Fuggisti dai nazisti, salvati da nuove famiglie che li protessero a loro rischio e pericolo, facendoli passare per loro figli naturali. La Danimarca è L’unico paese d’Europa in cui lo sterminio di bambini e di adulti non ha avuto luogo

Durante la Seconda Guerra Mondiale i tedeschi attaccarono la Danimarca, che a tutta prima s’era dichiarata neutrale, alla mattina del 9 aprile 1940. Gli scontri durarono sei ore, con qualche morto da una parte e dall’altra, dopo di che la Danimarca si arrese. Nei primi anni della loro occupazione, i nazi mantennero un’aria bonaria. Finché nell’ottobre del 1943, nel momento in cui i nazi erano i padroni della massima parte dell’Europa, partì la caccia agli ebrei danesi. Nove bambini ebrei su dieci che vivevano nei paesi su cui sventolava il drappo uncinato sono stati vittime dell’Olocausto, per un totale di un milione e mezzo di bambini uccisi. L’unico spicchio d’Europa in cui questo sterminio di bambini e di adulti non ha avuto luogo è la Danimarca dove, quando Hitler diede l’ordine di rastrellarli, la gran parte dei circa ottomila ebrei danesi riuscì ad attraversare i 5/10 chilometri dello stretto di mare che separa la Danimarca dalla Svezia, allora un paese neutrale. Solo che era un attraversamento molto pericoloso d’inverno per dei bambini piccoli, e alcune famiglie ebree lasciarono i loro figli nelle mani di famiglie danesi che per tutto il tempo della restante occupazione tedesca li accolsero e li protessero a loro rischio e pericolo, facendoli passare né più né meno che per loro figli naturali. Non solo, quanto ai 500 ebrei danesi che i nazi deportarono nel campo di concentramento di Theresienstadt in Cecoslovacchia, il governo danese e re Cristiano X di Danimarca fecero di tutto pur di salvarli. Più del 99 per cento degli ebrei danesi sopravvisse così all’Olocausto. A un tempo in cui lo stipendio mensile medio in Danimarca era inferiore a 500 corone danesi, il salvataggio via mare degli ebrei costò qualcosa di vicino a 200 milioni di corone, metà pagate dalle famiglie ebree e metà dalle donazioni fatte da ricchi danesi (lo riferisce Wikipedia alla voce “Salvataggio degli ebrei danesi”). Nel museo il più sconvolgente che io abbia mai visitato nella mia vita, lo Yad Vashem di Gerusalemme, il museo dedicato alla storia dell’Olocausto, ha il suo nome nell’elenco dei “giusti” Georg Ferdinand Duckwitz, il funzionario tedesco che aveva avvisato i danesi dell’imminente rastrellamento. E siccome ne sapevo qualcosina di questa storia, appena sono arrivato a Copenaghen per una breve vacanza ho immediatamente messo nel conto di fare una visita al Museo ebraico (era stato inaugurato nel 2004) che, come quello di Berlino, porta la firma del grande architetto polacco naturalizzato statunitense Daniel Libeskind. Molto più piccolo di quello tedesco, è uno splendido museo che tra i primi suoi compiti s’è dato quello di ricostruire e raccontare i dettagli della storia eccezionale di un paese dove gli ebrei sono stati protetti e difesi come in nessun altro stato d’Europa. Massiccio quanto accuratissimo è il tomone in lingua inglese di Sofie Lene Bak (Nothing to speak, The Danish Jews Museum, 2011) che quella storia te la fa vivere ora per ora, a cominciare dal ricchissimo apparato fotografico. Da restarne a bocca aperta.

Torniamo ai bambini ebrei che vivevano nella Danimarca occupata dai nazi e che si sono salvati mercé la protezione di famiglie danesi che li accolsero come fossero figli propri. La questione di come vissero e sopravvissero irruppe in Danimarca nella primavera del 2009 e divenne sempre più consistente alla metà dell’estate. Il fatto è che il Danish Jewish Museum aveva raccolto le testimonianze di 25 di quei bambini nel frattempo divenuti grandi, nonché delle loro spose e delle famiglie che li avevano come adottati. Nello spazio di pochi mesi gli ex bambini contattati divennero 139, di cui l’80 per cento all’epoca annoverava bambini che avevano meno di dieci anni. In realtà i casi erano ancor più numerosi, ma 139 (76 bambine, 63 maschietti) erano quelli basati su prove indiscutibili. E’ probabile che in molti altri casi gli interessati abbiano preferito non esporsi.

A proposito di bambini che si nascondono da un’eventuale persecuzione, la letteratura in materia distingue tra chi usa un nascondiglio “invisibile” (un bunker o se del caso un armadio) e chi usa un nascondiglio “visibile”, ossia se ne sta in una famiglia o magari in un convento. Nel caso dei bambini ebrei danesi tutti loro presero parte apertamente alla vita delle famiglie che li avevano accolti. Nothing to speak racconta più particolarmente (e pubblica la foto) di Tove, una bellissima bambina ebrea che aveva tre anni quando la madre, Paula Warschafsky Mortensen, raggiunse un rifugio sulla costa danese dove sperava di trovare da un momento all’altro un’imbarcazione che la trasferisse in Svezia. Un danese che di quei viaggi se ne intendeva e sapeva quanto fossero pericolosi, offrì di tenersi la bambina, cosa che lui e sua moglie faranno con grande amorevolezza. Ma forse il massimo delle tante storie esemplari raccontate nel tomone pubblicato dal Danish Jewish Museum è un’altra. Nella foto che l’accompagna sono l’una accanto all’altro – fotografati a mezzo busto – una bellissima bambina dai capelli nerissimi e un bellissimo bambino che più biondo di così non si può. Lei è una bambina ebrea di nome Sonja Grünbaum, lui è bambino danese di nome Hans Peter Omann. Nella casa della madre di Peter vissero assieme fino al 1946, quando lei venne restituita ai suoi genitori biologici. La madre, che chiameremo adottiva, li aveva inscritti alla stessa scuola presentandoli entrambi come suoi figli. Quanto fossero fisicamente dissimili l’una dall’altro colpì il preside della scuola, il quale non si trattenne dal farlo notare a quella che affermava essere la madre di entrambi. Al che la signora danese rispose con una frase che meriterebbe anch’essa di essere onorata con una targa allo Yad Vashem di Gerusalemme: “Lei non ha il diritto di immischiarsi della mia vita sessuale”. Una targa, non meno che questo.

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