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uffa!

Le belle famiglie di Israele e le cinque tribù che ancora oggi lo dividono

Giampiero Mughini

Lo stato dei refusenik o dei capi politici dei coloni? A chi appartiene veramente? “Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni”, scrive Lucio Caracciolo

Trepidante com’ero di voglia di comprendere, quella prima e unica volta che sono stato in Israele mi sono imbattuto in una scena che da sola sembrava farmi capire la valenza di quel luogo unico al mondo. Io e Michela stavamo girando per un quartiere di Tel Aviv zeppo di gente quand’ecco che ci trovammo innanzi un lui e una lei israeliani, due più o meno trentenni e bellissimi ragazzi –  atteggiati al modo di una coppia similare a Londra a Parigi o a Milano – i quali si tiravano dietro ben tre figli di cui il maggiore avrà avuto non più di sei anni e il minore attorno ai due, e difatti se ne stava in una carrozzella. Impossibile ti sfuggisse la gioia di vivere che emanava da quel quintetto, impossibile non pensare che stesse in questo il valore particolarissimo di Israele, della terra in cui una coppia di giovani ebrei poteva finalmente vivere al riparo di qualsiasi agguato o minaccia come era stato pressoché dappertutto nella precedente storia europea. Credevo che in quella loro immagine fosse riassunta tutta quanta l’identità di Israele. E invece mi sbagliavo. Le cose non sono così semplici, e sono grato a questo numero speciale di Limes (la rivista diretta da Lucio Caracciolo) per avermelo fatto capire. Un numero monografico che già dal titolo, “Israele contro Israele”, allude a quanto sia rovente la materia trattata.

Sto rubando a quelle pagine la loro terminologia. Ossia che non tutta Israele è alla maniera dei due ragazzi che per le strade di Tel Aviv manifestavano una loro felicità e un loro modo di vita. No. Loro sono i rappresentanti di una soltanto delle cinque “tribù” che compongono questo paese da nove milioni di abitanti. E seppure sia un termine biblico, il termine “tribù” apparirà a qualcuno eccessivo. E difatti uno dei collaboratori della rivista, Riccardo Calimani (presidente del Museo dell’ebraismo italiano), preferisce usare il termine “blocco”; ammetterete che se non è zuppa, è pan bagnato.

Cinque tribù. La prima quella costituita dagli israeliani laici alla maniera dei due giovani non a caso incontrati per una strada di Tel Aviv, la città in cui a partire dagli anni Venti si installarono gli ebrei che volevano sottrarsi al micidiale agguato antisemita che stava covando nella società tedesca, e dal loro arrivo ne vennero le case impregnate del gusto Bauhaus che fanno da vialone principale di Tel Aviv, quello che l’Unesco ha eletto a patrimonio dell’umanità. Poi ci sono gli ebrei religiosi, quelli che nella loro vita di tutti i giorni non transigono sulle regole imposte dal Libro, a cominciare da quella che per diritto divino attribuisce agli ebrei la terra su cui sorge lo Stato di Israele e su cui vivevano da secoli popolazioni palestinesi. Poi ancora gli ebrei ultraortodossi, di cui sappiamo qualcosa da alcune mirabili serie televisive dei nostri giorni, i quali se ne stanno in un mondo tutto loro al punto da rifiutare quel servizio militare di cui pure Israele ha bisogno come del pane, circondata com’è da stati avversi. Quarta tribù gli arabi che vivono in Israele, i quali sulla carta hanno gli stessi diritti degli ebrei israeliani non fosse che nella loro buona parte si sentono estranei a Israele. Quinta tribù la popolazione drusa. Tutta gente separata gli uni dagli altri da steccati non irrilevanti, a cominciare da un’istruzione scolastica diversa per ciascuna delle tribù di cui ho detto. Da cui la domanda che Caracciolo mette in testa al numero di Limes di cui sto dicendo. Qual è l’identità dello Stato di Israele, a chi appartiene veramente? “Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni”, scrive Caracciolo. E tanto più che Israele non è mai riuscita a darsi una costituzione che ne definisse a puntino il perimetro ideale e istituzionale. Ancora Caracciolo: “La costituzione cui si è finora rinunciato causa eccesso di eterogeneità nella società israeliana. […] A settantacinque anni dall’avventurosa nascita, cinque dopo l’autocertificazione quale stato nazionale del popolo ebraico via maggioranza d’un voto in parlamento, la creatura sionista è scossa da una crisi identitaria. I suoi dirigenti evocano lo spettro della guerra civile”. E siamo alle immagini odierne, le centinaia di migliaia di israeliani che giorno dopo giorno stanno testimoniando per le strade e le piazze di Israele contro la riforma istituzionale voluta da un capo del governo sotto scacco giudiziario, e che per questo vuole sottrarre alla Corte suprema una quota delle sue prerogative. Sì, un paese sull’orlo della guerra civile.

Sconvolgente su tutte è l’intervista che a Limes ha rilasciato Niron Mizrahi, un riservista delle Forze di difesa israeliane, quelle che per numero e qualità hanno assicurato a Israele le sue vittorie militari e dunque la sua sopravvivenza. Mizrahi si vanta di essere un refusenik, uno che oggi si rifiuterebbe di indossare la divisa militare ove Israele glielo chiedesse, un rifiuto che lo accomuna ai tanti piloti di caccia, l’élite dell’esercito israeliano, quelli che per obiezione di coscienza condividono il rifiuto anti Netanyhau. Ma lei non teme il sorgere di una terza Intifada? chiede Anna Maria Cossiga. Ecco la risposta di Mizrahi: “L’Intifada c’è da quando Israele ha dato inizio all’occupazione […] I palestinesi non dovrebbero fare attentati, non è una soluzione. Ma se si controlla la gente con l’esercito, se si entra nelle casa dove vive, è un problema. Noi israeliani stiamo alimentando l’odio reciproco. La recente politica verso – anzi contro – i palestinesi è un disastro. Non risolve niente. Per noi, loro sono i terroristi; per loro, i terroristi siamo noi. Non ci parliamo, non comunichiamo”.

Di chi è Israele, di un uomo come Mizrahi o dei capi politici dei coloni che spasimano di installarsi nei territori dove vivevano e vivono i palestinesi?

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