Uffa

Mario Diacono, artista ignorato, ma tanto cruciale quanto irraggiungibile

Giampiero Mughini

Danilo Montanari gli chiese di scrivere l'introduzione del suo ultimo libro. Ma per Diacono il non esserci vale più dell'esserci, del comparire

E  siccome ai giorni nostri Babbo Natale bussa alla porta ogni giorno, sotto forma di postini o rider che pigiano il campanello di casa tua a consegnarti i libri da lavoro o da collezione che sei andato via via ordinando online, è stata una gran bella sorpresa ricevere qualche giorno fa da Danilo Montanari un pacco che si presentava ben più sontuoso di quanto mi aspettassi. Dire che Danilo Montanari (è nato a Marina di Ravenna nel 1953, ha cominciato la sua attività editoriale ventiseienne nel 1979) è un piccolo editore è una bestemmia, dato che di libri afferenti all’arte ne ha tirati fuori negli anni circa 700, alcuni importanti, alcuni indispensabili.

 

Era successo che io avessi ordinato online un libro da lui edito, e invece di libri che portano il suo marchio editoriale me ne sono arrivati quattro o cinque, uno più gradito dell’altro. Il tutto senza la benché minima richiesta di occuparmene o di pubblicizzarli o altro. Erano un dono e basta. Accluse c’erano due righe dov’era scritto a mano che il libro più stuzzicante del gruzzolo, “Le bugie del giovane Danilo Montanari”, un librino del 2020 che raccoglieva alcune conversazioni al telefono tra Montanari e l’artista visivo Giuseppe De Mattia, era stato pubblicato lasciando a quelle conversazioni il tono e lo stile di due amici che parlano tra loro, senza alcun abbellimento o correzione. Un libro sugoso, perché in quelle conversazioni Montanari racconta il poco meno che mezzo secolo in cui lui ha vissuto di pane ed editoria d’arte. E lo fa non dal punto di vista di un esperto o di un editore autorevole, ma dal punto di vista di un uomo che ha avuto a che fare con altri uomini che si chiamavano Mario Schifano, Alighiero Boetti, Piero Dorazio, Sol LeWitt, Giulio Paolini, Maurizio Nannucci, il grande fotografo Luigi Ghirri. Di ciascuno racconta a bassa voce un tratto, un episodio, una sfumatura del carattere. Di Boetti, un artista che già in quel momento vendeva le sue opere a prezzi cospicui, racconta la volta che in un mercatino di provincia lo vide contrattare alla morte un paio di jeans che partivano da una richiesta del venditore di 20 mila lire e che lui riuscì a pagare 8 mila lire. Di Sol LeWitt racconta la volta che Montanari fece cinque ore di auto negli Usa per andare a casa sua a ritirare delle opere che servivano alla pubblicazione di un libro a lui dedicato, arrivò alla porta di casa LeWitt, bussò, quello gli aprì, gli disse di aspettare lasciandolo fuori casa, tornò, gli diede le opere e a congedarlo gli rivolse un “ciao”, ciò che pare fosse il massimo della conversazione abituale del grande artista concettuale americano. Del fiorentino Nannucci, uno che ha fatto da mentore del libro d’artista italiano dei Sessanta/Settanta, racconta che quando arriva in una fiera del libro e comincia a frugare in cerca di libri d’artista è una sorta di “ciclone” (“la sua collezione è quasi maniacale e sterminata, potrebbe fare il paio con un museo”).

 

Tra gli amici di Montanari figura Mario Diacono (nato a Roma nel 1930, oggi risiede a Boston), un artista/intellettuale tanto cruciale quanto irraggiungibile, e per il fatto di essere obliquo rispetto ai luoghi e agli ambienti riconosciuti dell’arte italiana di quest’ultimo mezzo secolo (di cui pure è stato un protagonista assoluto), e per il fatto di avere vissuto negli Usa la buona parte di questi ultimi cinquant’anni. Uno dei cinque libri che ho ricevuto in dono da Montanari è un libro di Diacono abbacinante, “Objtexts 1967-1977”, un libro dove (a parte un’introduzione di venti righe e non una di più) non c’è una sola riga di scrittura lineare, tutto fatto o meglio “scritto” com’è a mezzo di oggetti d’arte, di tracce materiali che l’autore s’è inventato a forza di mani e di intelligenza concettuale, tutte creazioni di Diacono appartenenti alla leggendaria collezione di Achille Maramotti, il fondatore di MaxMara, di cui Diacono era stato amico, ispiratore, consulente. Un libro che racconta una storia creativa talmente ricca da valerne dieci dei libri che vedete promossi e declamati un po’ dappertutto in giro per l’Italia. Attorno a questo libro, mi pare, un silenzio soffocante. E del resto chi volete che si occupi di un artista per il solo fatto che è un genio?

 

Dopo avere vissuto in America dal 1968 al 1976, Diacono decise di tornare in Italia dove nel 1978 Maramotti lo aiutò a mettere in piedi una galleria d’arte a Bologna, galleria che lui qualche anno dopo trasferì a Roma per poi tornarsene a Boston nel 1984. Devo al prezioso gallerista e editore d’arte romano Piero Varroni l’avere avuto la mail di Diacono, al quale ho chiesto quali dei suoi libri gli fossero rimasti. Me ne ha venduti quattro, due li avevo già, farò dei cambi. Ho scritto a Diacono chiedendogli se gli fosse rimasto qualcosa dei materiali originali da cui vennero fuori i cinque numeri di EX, la mirabolante rivista di poesia visiva da lui fatta in combutta con l’altro gigante suo pari, Emilio Villa, e di cui uscirono cinque numeri tra il 1961 e il 1968. Mi ha scritto che i materiali originari di quei cinque numeri loro due non andarono mai a ritirarli in tipografia e che probabilmente a un certo punto il tipografo li conferì alla monnezza. Né più né meno.

 

Montanari avrebbe voluto che fosse proprio Diacono a scrivere una sorta di introduzione al suo “Le bugie del giovane Danilo Montanari” da cui sono partito, e tanto più che in quel libro c’è una paginetta dove racconta un saporoso episodio di quando andò a trovare il Diacono gallerista a Boston, e faticò non poco a beccarlo. Solo che Diacono gli ha scritto di non ricordare l’episodio, e s’è dunque sottratto allo scrivere qualcosa. Per lui il non esserci vale più dell’esserci, del comparire, del mettersi a favore di camera come fanno da mane a sera tanti odierni cialtroncelli.

 

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