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Terrazzo
Frank Gehry, da spiantato ad archistar, senza perdere il sorriso
Vita e opere del grande architetto mancato il 5 dicembre. Dall'infanzia povera alle grandi cattedrali, sperimentando nuovi materiali e nuove polemiche. I quotidiani di tutto il mondo lo salutano come il più grande architetto americano dopo Frank Lloyd Wright
“Lei è l’architetto che più mi interessa e attrae oggi al mondo” disse Bruno Zevi a Frank O. Gehry quando lo conobbe di persona a Gerusalemme nei primi anni ‘90. Eppure fino ad allora l’architetto canadese mancato la settimana scorsa, diventato quasi un meme del Grande Architetto, dell’archistar globale, era stato uno scapestrato di successo, riuscendo a costruire un edificio fortunato solo in Europa, il Vitra Design Museum vicino Basilea nel 1989, l’anno in cui ricevette il Premio Pritzker, l’Oscar dell’architettura.
I quotidiani di tutto il mondo lo salutano come il più grande architetto americano dopo Frank Lloyd Wright, maestro che provò a incontrare da giovane andando in auto fino a Taliesin West in Arizona, salvo tornare immediatamente indietro con la famiglia, innervosito però dal fatto di dover pagare un dollaro per entrare alla corte del maestro. Irascibile e attaccabrighe lo è sempre stato, vedi il dito medio alzato a un giornalista in Spagna ancora dieci anni fa per una domanda non gradita o ancora i mille problemi con committenti e cantieri: per terminare la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles, uno dei suoi mammozzoni più famosi, prima dovette finire il Museo Guggenheim di Bilbao, la sua opera più celebre, che ha creato il micidiale “effetto Bilbao” per cui ormai ogni sindaco per rivitalizzare la propria città o cittadina punta sul tragico connubio archistar+arte contemporanea. Ma lì si trattava soprattutto di una questione tecnica, dove reperire quelle vele di titanio (allora prodotte in Veneto, fra l’altro).
Oggi ogni città che si rispetti ha il suo porcospino velico targato Gehry, Gehry è come il trumeau in salotto di un tempo. Ma non è sempre stato così: nato Ephraim Owen Goldberg nella gelida Toronto del 1929, abbandonata presto con la famiglia per via della malattia del padre, trovò come tanti la sua terra promessa in California, cambiò come tanti nome e cognome mantenendo solo Owen (la caccia alle streghe e il caso Rosenberg aveva fatto cancellare un sacco di “erg”). Nel documentario che il suo amico Sydney Pollack gli ha dedicato prima di morire, “Creatore di sogni” (2006), passa rapidamente davanti al misero appartamento dove visse da immigrato con i genitori e la sorella Doreen, senza nascondere l'irritazione che ancora lo coglie.
Il padre morì comunque poco dopo, la mamma costretta a lavori umili, lui stesso a guidare un camioncino per montare angoli cottura a domicilio per mantenere la famiglia e pagarsi gli studi. Un’altra grande delusione la ebbe quando provò a lavorare per l’architetto viennese Richard Neutra, quello che ha inventato il modernismo losangelino delle case coi pilastrini di ferro: se ne andò il primo giorno di lavoro quando scoprì che non avrebbe ricevuto alcun compenso, a parte il lustro di lavorare per il maestro. Di gran lunga preferiva Rudolf Schindler, ex socio di Neutra, più alla mano e bricoleur come piaceva a Gehry, che infatti la prima passione la ebbe per la ceramica. Un’arte minore, “applicata” si diceva allora, e però manuale e creativa. Sbagliano perciò a paragonare le sue architetture anti-cartesiane a sculture - odiava che lo definissero scultore, per le linee sinuose dei suoi edifici - perché c’è piuttosto la passione per i materiali alla base, se n’era accorto Glen Lukens che fu il professore del corso di ceramica a pagargli in forma anonima la tassa d’iscrizione al primo anno di architettura alla University of Southern California.
Seguono mille le avventure fra Santa Monica, dove abitava, e Marina del Rey, dove aprì lo studio. Due figlie con la prima moglie ebrea Anita, due figli con la seconda cattolica Berta, in mezzo molte partite di hockey su ghiaccio (lo sport canadese caro a Mordecai Richler) e molte sedute dallo psicanalista, eternamente insoddisfatto dall’architettura che doveva fare per campare. Prima un PhD a Harvard, ma in urbanistica (si dimette dopo un anno), poi un’esperienza a Parigi e il lavoro per l’inventore degli shopping mall, l’ebreo viennese Victor Gruen – il ponte fra Vienna e Los Angeles è bello forte, vedi i due Arnold, Schönberg e Schwarzenegger.
Frequentando gli artisti si sentiva più libero e felice, Ed Moses su tutti, al punto che ogni tanto diventarono suoi clienti, come per la casa Danziger o quelle per Chuck Arnoldi. A Santa Monica si costruisce un monumento di onduline e reti metalliche. La casa dove vivrà fino alla morte, avvenuta venerdì scorso, modificandone una qualsiasi precedente: inventa così il “cheapscape”, lo stile poveraccista che riusa i materiali poveri californiani, quelli dei cantieri stradali, lamiere, reti, telai di legno da quattro soldi. Cominciano i pellegrinaggi per visitarla, siamo andati tutti, a instagrammarci, e una volta però vanno insieme Bucky Fuller e John Cage, ma Gehry è deluso perché il musicista, poco impressionato, in realtà guardava se ci fossero funghi. E non a tutti piaceva: un vicino di casa, avvocato, gli fece causa per danni evidentemente estetici.
Gehry rideva del suo essere diventato “igonigo”, e non ha mai perso il suo lato divertito e divertente. Come alla Biennale del 1985, quella diretta da Aldo Rossi, quando con gli artisti Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen mise in scena lo spettacolo “Il corso del coltello” travestito da Frankie P. Toronto dove la P stava per Palladio e infatti aveva una serie di colonne di gommapiuma addosso, supportato da Basta Carambola (Germano Celant). Il menu offriva pâté di catrame con noci per antipasto, fusilli al cavatappi con polpettine come primo, caciucco alle pinne di gomma come secondo, zucchini al baffo con formaggio come contorno. Pietanze paradossali e indigeste come indigeste sono state le sue architetture per la critica tradizionalista, specie dopo l’effetto Bilbao del 1997 e fino alle grandi opere della maturità a Berlino, Parigi, Arles, Manhattan, Abu Dhabi e Toronto, alcune ancora in corso, fino alla vera consacrazione ovvero l’apparizione nei Simpsons nel 2005 – disegno che teneva nel suo studio sopra la porta d’ingresso: tutti dovevano passarci sotto, come delle forche caudine pop.
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