Terrazzo

Lo spagnolo di piazza Navona

Michele Masneri

Vita e opere di Julio Lafuente, protagonista della dolce vita architettonica romana

In una città dove “le rovine durano troppo”, secondo Gore Vidal, e dove l’antico è talmente onnipresente da soffocare, andare in giro a cercare le architetture moderne può essere una strategia di sopravvivenza. Però che fatica dev’essere stata fare l’architetto vivente in una città che celebra il passato. Julio Lafuente, di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita (1921-2013), ha partecipato al momento d’oro del modernismo romano, insieme con i dioscuri della palazzina, Monaco e Luccichenti.

 

La storia la racconta al Foglio la figlia Clara, architetta anche lei, con studio paradossalmente nella zona più antica di Roma, i Fori. E lì, in una specie di town house con piante tropicali, che si potrebbe essere a  San Paolo del Brasile, ecco la storia del giovane Lafuente che a vent’anni arriva a Roma. Figlio di un falegname-ebanista spagnolo, che aveva due clienti: un architetto classico e noioso che amava le finestre a listelli e un altro moderno che le voleva lisce e colorate. La scelta è ovvia ma il giovane Lafuente scappa dalla Spagna della Guerra civile e va in Francia, a studiare alla prestigiosa Beaux-Arts; e poi, in un clima da “Versione di Barney”, è il dopoguerra, Deux Magots eccetera, vorrebbe andare a New York a vedere il Seagram building di Van der Rohe, ma un amico molto ammanicato col Vaticano gli dice ma vai in Italia che è più vicino. E gli dà una lettera di raccomandazione per un certo Josemaría Escrivá de Balaguer che lui non sospetta essere il fondatore dell’Opus Dei.

 

Allora lui parte, con delle tappe: si ferma a Marsiglia, dove va a vedere l’Unité d’habitation, scende con la sua moto Bmw e passa per Saint Paul de Vence, bussa a casa di Picasso, la domestica lo caccia, e scende finalmente a Roma, intento a fare una ricognizione architettonica per poi proseguire, in moto o con altri mezzi, per altre metropoli ben più moderne. Come tanti di noi rimane impigliato per sempre. Però non è la Roma di oggi: va subito a vedere il quartiere di massimo boom edilizio dell’epoca, i Parioli (frenetiche edificazioni di prestigio, tipo porta Nuova dell’epoca). Vede un palazzo sconvolgente, con un primo piano quasi scavato nella roccia, legge sopra il nome di Luigi Moretti, il più grande di tutti, il  fascistone, l’unico che non ripudia il passato, e che si aggira per Roma con una pistola in tasca. Che è stato in carcere dove invece che tentare il suicidio ha messo giù un business plan per rifare la Milano del Dopoguerra insieme al finto conte Fossataro.

 

Moretti, racconta Clara Lafuente, gli mette a disposizione il suo autista, che  lo scorrazza per Roma a fare un tour delle sue opere.  E poi gli dice: con me non può lavorare, sa, perché io sono fascista e quindi vado a Milano. Lei vada dunque da Monaco e Luccichenti. Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti sono gli Age e Scarpelli della palazzina romana, costruiranno tutte le meglio architetture del dopoguerra tra Parioli e Pinciano e non solo (se fossimo a Milano, gli avrebbero già fatto un museo, una Triennale, un Expo, invece qui  niente). Non sono solo architetti-costruttori eleganti e chic ma anche una compagnia simpatica piena d’artisti: Cascella, Capogrossi, Severini e tanti altri, e ne viene fuori una specie di factory che fa palazzi come si fanno i film. Magari a tavola, magari in terrazza. O da Rosati, un Deux Magots però col sole. Qui c’è un salotto parallelo architettonico, di cui M&L sono protagonisti. Da questo smart working  vengono fuori alcuni “landmark” del Lazio,  tra cui le due palazzine gemelle a Santa Marinella (sopra), appunto Lafuente in collaborazione con M&L, con pilotis, fronte stradale chiuso a “cobogò”, molto Niemeyer, in mattonelle blu lucide.

Non ha mai avuto la tentazione di andarsene magari a Milano, dove c’erano Moretti e Ponti? “Ma neanche per idea”, spiega Clara Lafuente, perché Roma all’epoca era una specie di laboratorio permanente, e lui dà vita a questo modernismo che temperava gli stilemi più lecorbuseriani con un tratto quasi tropicale. Ecco dunque non solo le palazzine ma cliniche, chiese, e tante ville per il boom. Una monumentale a Cala Piccola all’Argentario; una all’Olgiata. A un ricevimento dell’ambasciata di Spagna conosce Gaetano Rebecchini, figlio del sindaco di Roma, che ha sentito parlare di lui, e insieme costruiranno molto altro. Va a vivere in una soffitta a piazza Navona poi ingrandita – scrive nelle sue memorie in “Visionarchitecture”, curato da Valentí Gómez i Oliver  e Pino Scaglione, ironiche e décontracté, siamo a Roma – “dando vita al primo abusivismo edilizio a Roma”. 

 

E poi l’Ippodromo futuristico di Tor di Valle, tornato alle cronache recentemente perché rischiava  d’esser demolito per far posto allo stadio della Roma; e fuori città fa la villa d’Urso a Conca dei Marini, quella celebre coi piedi in acqua dove al braccio dell’Avvocato e di Mario d’Urso scendeva Jackie Kennedy, “un ex magazzino dove si facevano le reti da pesca, con un bagno con le piastrelle disegnate da Coco Chanel e un oblò tondo che centrava perfettamente Amalfi”. Già appartenuta al conte Chandon, quello dello champagne, “la figlia di Chandon sosteneva che era un posto dove non si faceva l’amore, non so perché”. Oggi peraltro la casa è in vendita, da Sotheby's. E ancora: agenzie a Roma e New York della Olympic Airways per il grande amico Onassis; una villa a Skorpios che poi non si fece (piaceva alla Callas ma non a Jackie Kennedy, che la voleva invece sul cucuzzolo, rivelatosi troppo ventoso). Viaggi con la Olympic in giro per il mondo, gratis, e il pavimento dell’aeroporto di Atene che Onassis raccomanda “non scivoloso”, perché gli americani non vedono l’ora di ruzzolare per fare causa. A casa, Onassis non ha sorveglianza, ma tiene svariati El Greco appesi a due metri “così non me li rubano”. 

 

Negli ultimi anni, Lafuente ha fatto altri edifici sparsi per Roma che non si sospettano suoi. L’Air Terminal dell’Ostiense che sembra una roba di Robert Venturi però più bella (era uno degli avamposti di Italia Novanta, abbandonata e oggi sede dell’Eataly). E poi il quartier generale Esso, coi tre ventagli d’acciaio, che nascono per risparmiare materiale, o la sede di mattoni della Ferrania. Il restauro dell’Hotel de Russie. E un po’ di Medioriente. Il rifacimento di Gedda, con giardino di sculture, alcune disegnate anche in proprio, e la casa per il re d’Italia a Cascais (grazie alla moglie di Rebecchini, Marilù d’Amelio, della famiglia degli avvocati dei Savoia). Lafuente prende l’aereo e porta i progetti avveniristici a Sua Maestà e alla sua piccola corte, e non piacciono per niente. “Ma ci sono così belle case in Portogallo!”, risponde Sua maestà, che peraltro aveva estro decorativo. Lafuente protesta, la corte lo imbruttisce. “Non si contraddice Sua Maestà”. Però poi un secondo progetto piace, e si farà. Lafuente sosteneva che lavorare non stanca: deve, però, assolutamente, divertire.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).