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Terrazzo

Il classicista di Barcellona. Vita e opere di Ricardo Bofill

Manuel Orazi

Se ne va lo “Julio Iglesias dell’architettura” tra Palladio, postmoderno, kitsch e una storia italiana

La Catalogna, dopo Lionel Messi e Oriol Bohigas, nel giro di pochi mesi perde un altro dei suoi campioni, forse l’ultimo: Ricardo Bofill morto per complicanze legate al Covid a 82 anni. Talento straripante e asistematico, agli antipodi per questo al rigore disciplinare e istituzionale di Bohigas, era nato nel 1939 da un padre architetto imprenditore edile antifranchista e indipendentista liberal. Come recita un proverbio catalano, “Si lo pare es músic lo fill es ballador” e così Ricardo muove i primi passi di danza, fomentato dalla madre veneziana Maria Levi che vede in lui il genio. Le sue idee marxiste giovanili, la sicurezza di sé da hidalgo lo portano ben presto allo scontro dapprima con l’università (se ne va a Ginevra per laurearsi) e poi con le autorità locali dopo i primi progetti, già coloratissimi, di cui è anche costruttore. Come se non bastasse, non è in linea col modernismo imperante del suo milieu perché ama piuttosto l’architettura vernacolare spagnola, italiana e magrebina (“non mi è mai piaciuto Le Corbusier”). Apre allora uno studio nella Casa Milá di Gaudí, cerca fortuna nella nuova Algeria indipendente e parallelamente si dedica al cinema, frequentando i registi della scuola di Barcellona come Vicente Aranda, girando due documentari dai titoli architettonici, Circles (1966) e Esquizo (1970), che ruotano intorno ai dilemmi del creativo eternamente insoddisfatto e dell’artista ossessionato da un’idea, ma soprattutto intorno alla protagonista, l’attrice Serena Vergano, che aveva già lavorato in Francia e in Italia con Zurlini. Si sposano e hanno un figlio, Ricardo jr, architetto anche lui. Quindi apre a Parigi un altro studio che realizza intorno alla capitale e a Montpellier progetti neopalladiani con smisurate colonne kitsch e colossali corti con fontane e sculture, però prefabbricate a basso costo dunque per i proletari, come i casermoni classicisti nella Mosca staliniana, cosa che si sposava alla perfezione sia con la grandeur gollista di Giscard d’Estaing sia con la force tranquille socialista di Mitterrand. “Ho studiato e inseguito Palladio per anni come si fa con un torero, però quello che mi piace di più di un progetto è ottenerlo”. 

 

Grande seduttore, s’innamora della ceramista Annabelle d’Huart, che è la madre del secondogenito Pablo, architetto pure lui, ça va sans dire. Il suo francese spigliato, come i capelli al vento nelle interviste che concede sul Pont Neuf, seducono e incantano quasi tutti, tranne Bruno Zevi che scrive strali al vetriolo contro il suo monumentalismo nostalgico. Diventa piuttosto il campione internazionale dell’architettura postmoderna, celebrato dal suo massimo ideologo Charles Jencks che lo definisce niente meno che il Napoleone dell’architettura, superiore persino ai progettisti Usa, dove pure il postmodernismo negli anni 80 diventa una sorta di stile nazionale, riuscendo a costruire – unico spagnolo – due grattacieli a Chicago, la città dove sono stati inventati. Ciononostante Bofill assume sempre più un atteggiamento dandistico, derivato da un’irremovibile determinazione a non essere coinvolto – ad esempio ripete che Zevi è per lui un maestro. 
Raggiunto il culmine del successo professionale e della mondanità – nel 1985 è membro della giuria della Biennale cinematografica a Venezia con Ionesco – si accorge però di non avere più voglia di grandi imprese e torna all’ovile ritirandosi nel suo Taller (laboratorio) contenuto nella Fábrica, un cementificio abbandonato alle spalle di Barcellona, recuperato integralmente e trasformato in una casa-studio con tetti verdi circondata da alberi e giardini, mirabile esempio di re-cycle architettonico ecologico-surrealista, attualissimo.

 

Nonostante nella seconda parte della sua vita abbia assunto le vesti del nemo propheta in patria, il suo influsso è stato notevole, più nella cultura di massa che sui suoi colleghi. Tralasciando le fortunatissime serie tv girate nei suoi progetti o ispirate a essi come “Squid Game”, che riprende La Muralla Roja (1973) di Calpe, vicino Alicante, che a sua volta ricreava le spazialità escheriana di una medina, e il complesso Espaces d’Abraxas (1983) a Noisy-le-Grand dove hanno girato un episodio di “Hunger Games” (nonché “Brazil” di Terry Gilliam), il medium che gli deve di più è certamente Apartamento, l’imitatissimo magazine catalano votato all’edonismo dell’interior design internazionale e delle case vissute per davvero dai proprietari insieme ai loro amici. In un accorato post su Instagram, Apartamento dichiara di sentirsi orfano, di condividere l’ambizione cosmopolita di Bofill e di averlo incontrato di persona solo dieci anni or sono a una festa a New York.
“Alegría amagada, candela apagada” (Allegria nascosta, candela spenta, cioè l’allegria non condivisa non è allegria), altro proverbio catalano, potrebbe essere il motto bofilliano. Leggendarie le sue feste alla Fábrica, Chris Pierce e Tom Weaver quando andarono a intervistarlo nel 2014 per AA Files sognavano di assistere alla danza delle ballerine vestite solo delle vibrisse da gatte raccontata da Benedetta Miralles Tagliabue, ospite abituale. Celebri anche i suoi incidenti sciistici e automobilistici, i giorni interi trascorsi in aereo partendo e arrivando da un aeroporto disegnato da lui stesso (El Prat) che richiamano i versi di una canzone del suo doppelgänger Julio Iglesias: “Arrivare partire che gusto mi dà / sono un mago poeta con due identità / sono quel vagabondo che pace non ha” – i due sono stati anche consuoceri: nel 1993 Ricardo jr impalmò Chábeli Iglesias divorziando l’anno seguente. Eppure in quell’intervista inglese Bofill mantenne un profilo basso, “Sono un nomade mediterraneo” ripeté loro con nonchalance, “Non mi piacciono gli eccessi, i lussi, le forme o i materiali costosi. Mi piace l’architettura minimalista e sexy… tutti qui in Catalogna sono artigiani o artisti, tutti inventano qualcosa e in fondo non sono diverso dagli altri”. Grazie alla sua seconda identità italiana Bofill peraltro ha lavorato anche a Savona, Bologna e Salerno, col suo grande Crescent sul mare, che De Luca (assolto in appello per la solita inchiesta) ha ricordato come l’opera più importante della sua vita, commuovendosi. Mica male per un nomade.
 

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