Giardino zoologico di Roma, la casa degli elefanti negli anni Trenta

Ode ad Armando Brasini, l'irrazionalista

Michele Masneri

Chi era “l’altro” architetto di Mussolini. Uno stile tutto guglie e svolazzi, che poteva diventare il volto del fascismo

Sono quelle sliding door tremende per il gusto e le storie nazionali, come se al posto del vhs avesse trionfato il beta, o se non fosse morto Pasolini e fosse stato invece scannato e santificato Zeffirelli (e oggi, in un’Italia “zeffirelliana”, invece PPP fosse un affezionato opinionista dei grandi fratelli vip, magari su posizioni sovraniste). Così, chissà come staremmo se invece che il celebrato Marcello Piacentini il cantore architettonico del fascismo fosse stato Armando Brasini (1879-1965).

 

Entrambi romani, entrambi avevano incontrato il committente da sogno dell’epoca, Benito Mussolini, che come un cinese d’oggi aveva poteri e budget assoluti (ma a differenza dei cinesi non costruisce città a led che cambiano colore di notte). Vinse come si sa Piacentini, con un Bauhaus italico marziale e composto, forse poco adatto al carattere nazionale, ma si sa che Mussolini voleva un’Italia di italiani immaginari, sportivi e vagamente nordeuropei, dunque lo stile piacentiniano, monumental-muscolare, era più che altro wishful thinking.

 

Se Piacentini era il super io, Brasini era una fantastica ombra architettonica, più coerente, comunque, col carattere nazionale. Avrebbe trasformato l’Italia nella Baviera di Ludwig, tutta pinnacoli e archi. Per chi non lo conosce: architetto svolazzante-romano, eccellente disegnatore (qualche fortunato ha ancora in casa suoi disegni), era un Albert Speer del Gra, un Piranesi 3D, creatore di un neobarocchetto isterico e gaddiano. Si esprime al meglio con piccoli capricci architettonici, quinte di una romanità molto vista anche al cinema: villini fatali tipo Luiss, l’ingresso dello zoo (ed è subito Marisol); il ponte Flaminio con quelle lampare giganti e sinistre che sembrano segnalare il passaggio di chissà quali grandi navi, e non le Smart che corrono a Roma nord, magari inseguite dal Cecato; il palazzo tutto-guglie dell’Inail a via Quattro Novembre, che, narra la leggenda, doveva servire a impallare la vista alla casa Carandini-Albertini (poi Agnelli) sul colle più alto, e dunque torrette e guglie anche inutili col solo scopo di imbruttire quel covo di antifascisti nordici.

 

E poi le massicce edificazioni deliranti: la chiesa assiro-babilonese di piazza Euclide e la villa Brasini a Ponte Milvio, detta “il castellaccio” (e qui, leggende: con un ninfeo forse luogo di forze occulte, bassorilievi arcani, sfere alchemiche. E, più sicuro, quartier generale della Gestapo per un po’). E poi la Neuschwanstein romana, il complesso del Buon Pastore, delirante città immaginaria di chiese e guglie.

 

Brasini però ebbe poca fortuna col Duce, che sul design era molto picky – faceva fare tutto a Piacentini e dava lui dei tocchi finali, rifiutò tantissimi pitch anche di primarie archistar come Le Corbusier, che fece infinite anticamere umilianti a Roma. Al candore del travertino piacentiniano, Brasini opponeva nere leggende, oniriche e alchemiche. “A fà er liscio so’ bono pure io”, intendendo le architetture moderne a cui preferiva capricci borrominiani.

 

Per un po’ piacque al supremo committente. A tradirlo non fu però lo stile, o non solo, quanto una molto italica tendenza a sforare i budget. Il suo piano per una Roma imperiale Maxima (distruzione di tutto il centro salvo il Pantheon e pochi altri monumenti, e una colossale stradona che collegasse i Fori all’Appia antica e alla Flaminia) non fu mai realizzato non perché demenziale bensì perché troppo costoso. Si dice che alle cene romane si vantasse molto d’aver fatto suicidare la suora economa di piazza Euclide, perché il progetto continuava a crescere, sforando qualunque previsione (religiosa morta, e cupola mai realizzata).

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