Alice Waters (Foto di Amanda Marsalis)

Alice nel paese dei cheeseburger

Michele Masneri

Una giornata con Alice Waters che da cinquant’anni combatte l’America cicciona

A Torino durante “Terra madre”, il Bilderberg dello Slow Food, viene fermata e selfata come una star: gira col suo codazzo di attivisti che sfidano la “fast food nation”, tra cui un enorme “guerrilla gardener” ex stilista di magliette losangelino, mentre i bancarellari pugliesi e calabresi offrono pomodori, carciofi, e spargono scaglie di parmigiano al suo passaggio.

 

Alice Waters è in Europa per presentare il suo ultimo libro di memorie, appena tradotto in italiano (“Con tutti i miei sensi”, edizioni Slow Food). Sarà incoronata presto Cavaliere della Repubblica dall’ambasciatore d’Italia a Washington, Armando Varricchio, e potrà attaccare la crocetta italica accanto alla Medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza americana, concessale da Barack Obama. Lei del resto convinse Michelle a creare il famoso orto biologico alla Casa Bianca. “In realtà ci avevo provato già coi Clinton” si schermisce col Foglio, “ma se Hillary era convinta, Bill un po’ meno. Piantarono dei pomodori sul tetto della casa bianca, e la cosa finì lì. Non era proprio quello che avevo in mente”.

 

Waters combatte da cinquant’anni l’America cicciona , quella che mangia solo schifezze nei “food desert” (“lo sa che l’ottantacinque per cento degli americani non si siedono a tavola mai, e che il ventinove per cento mangia in macchina?”); oggi la fast food nation è tutt’uno con l’America trumpiana, e lei le sfida entrambe.

La sua ultima battaglia è che le porcherie debbano essere eliminate soprattutto dalle mense scolastiche. Lei fa la resistenza tenendo discorsi in tutto il mondo, scrivendo libri, ma soprattutto cucinando: ha appena messo a tavola il governatore della California per convincerlo a realizzare il suo sogno: che ogni scuola compri carne e verdure solo dalle fattorie, abbandonando i micidiali cibi pronti e sostenendo così i produttori locali.

 

La sua battaglia viene da lontano: l’America degli anni Sessanta era un paese in cui si mangiavano solo “surgelati e scatolette”, racconta. “Mia madre tentava di cucinare cose sane, ci dava un sacco di vitamine. Nelle feste più importanti andavamo a New York e mi portavano nel mio ristorante preferito, si chiamava Automat, mettevi le monete in un distributore automatico ed usciva il piatto che volevi precotto, tipo slot machine”.

 

Per combattere l’America a microonde non ha fondato un partito, ma un ristorante. Il suo Chez Panisse, aperto nel 1971, ha sconvolto gli americani mettendoli di fronte a una conturbante verità: le verdure non crescevano in uno scaffale di Safeway, bensì (pazzesco) nell’orto.

 

Così la ex ragazza del New Jersey ha fatto della cucina un atto rivoluzionario, una body art meglio delle Marine Abramovic: come mettere in carta nel suo ristorante lussuoso un dessert che consiste in un unico frutto: un mandarino o una pesca però supremamente bio, di stagione, e pure tutto bitorzoluto.

 

Era la sua rivoluzione, nel Paese del turgore delle merci accaventiquattro; rivoluzione nata, non a caso, a Berkeley, dove scoppiava la rivolta studentesca. “Un pomeriggio del giugno 1967, ricordo che girando per ogni casa risuonava Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Mentre preparavo una mousse di vaniglia col Grand Marnier il mio fidanzato mi disse: spero tu ti renda conto che questa mousse contiene più proteine di quante ne assume un bracciante vietnamita in una settimana. Ecco, questo era il ’67 qui”.

Oggi le ideologie sono passate, Berkeley è diventata famosa soprattutto per i suoi ristoranti, ma Alice è ancora lì (e qui), a combattere la sua battaglia, e a cogliere i suoi mandarini.