Maledetti buoni

La serie tv Pluribus e il paradiso sociale che incarna un inferno da cui fuggire

Tommaso Tuppini

Una favola distopica in cui l’armonia universale si trasforma in una gabbia affollata, dove l’impossibilità di dire “no” cancella ogni traccia di libertà individuale

Che cosa accadrebbe se i sogni di solidarietà e bontà che coltiviamo da decenni si realizzassero tutti in un colpo solo? Ce lo mostra Pluribus, la nuova serie in streaming su Apple Tv. Un virus alieno, inviato a bella posta dallo Spazio profondo, infetta i terrestri. Questa volta, però, non porta violenza ma gentilezza: nessuno uccide, nessuno litiga più, si è sempre di buonumore, è impossibile non accogliere le richieste di chi ti sta intorno e gli umani si aiutano spontaneamente gli uni con gli altri. La solidarietà arriva a fondere la mente di ognuno in un’unica, grande mente collettiva. Il richiamo immediato sono i Borg di Star Trek. Più indietro, iVisitors, i lucertoloni nazi-comunisti che negli anni Ottanta invasero l’America e gli schermi televisivi di mezzo mondo. Ma il senso di questa vita senza urti sta in una frase che un anziano terrorista pronuncia nei "Demoni" di Dostoevskij: “Ciascuno appartiene a tutti, e tutti appartengono a ciascuno”.

Per ragioni misteriose, che neppure gli alieni comprendono, c’è uno sparuto gruppo di persone sulle quali il virus non ha effetto. La maggior parte degli immuni è invidiosa della nuova umanità pacificata e rimpiange di non esserne parte. Carol, scrittrice di romanzi rosa e scontrosetta, è l’unica a pensare che una bontà totale è peggio del male e si ribella, ma senza trovare seguito. In effetti, qualche motivo per convertirsi all’inedito ordine mondiale ci sarebbe: la mente collettiva permette a chiunque di assimilare istantaneamente l’intelligenza e le conoscenze di tutti gli altri, rendendolo capace di fare qualsiasi cosa. Non c’è più una vera divisione del lavoro, la ragazza del fast-food può pilotare un aereo, il sindaco fa lo spazzino. Anche le emozioni sono comuni, ciò che sente uno, lo sentono tutti. Sono più che vegetariani, non hanno né allevamento né agricoltura. Si accontentano dei frutti che cadono dagli alberi. Non mentono. Nessuno può rispondere “no”, e quindi nessuno può dire “io”, parlano sempre di “noi”.

La scrittrice dissidente trova una provvisoria salvezza nella solitudine. Si barrica in casa per sfuggire ai saluti, ai sorrisi, alle braccia tese, alle offerte d’aiuto che la inseguono ovunque. Ma la tregua dura poco. Gli altri, che vivono ogni isolamento come una ferita, la raggiungono, bussano, implorano, tornano alla carica. Se è possibile essere felici soltanto insieme, chi si sottrae diventa qualcuno da recuperare, un malato di cui prendersi cura. La serie insiste su questo rovesciamento: le parole d’ordine che usiamo per i nostri ideali – empatia, cooperazione, attenzione ai bisogni altrui – diventano, spinte al limite, un inferno di prossimità forzata. Ogni paradiso sociale ha un vizio d’origine: non tollera porte chiuse. La scrittrice vede la verità elementare che gli altri non vogliono ammettere, ovvero che senza la possibilità del rifiuto, senza una stanza tutta per sé, l’umanità è perduta. Diventa così la custode del più trascurato dei diritti, quello che nessuno difende: il diritto al malumore, restare in silenzio, non essere della partita.

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