Ricetta seriale
All's Fair, la serie che voleva essere femminista e finisce per essere solo brutta
Quella creata dall'affermato Ryan Murphy (Glee, Nip/Tuck) cade tristemente in un complessivo vuoto di senso
Brutta è brutta. Ma non di quella bruttezza che fa il giro e alla fine diventa ipnotica. Purtroppo, è brutta e basta. All’s Fair, serie Hulu disponibile su Disney+ e creata dall’affermato Ryan Murphy (Glee, Nip/Tuck) cade tristemente in un complessivo vuoto di senso.
Nell’ordine: siamo a Los Angeles e tre avvocatesse divorziste (Naomi Watts, Niecy Nash-Betts e Kim Kardashian) decidono di lasciare il loro vecchio studio (capitanato da Glenn Close e dove c’è l’agguerrita collega Sarah Poulson) e di aprirne uno tutto al femminile che si occuperà di difendere solo donne. Clienti ricche, con mariti che vanno dal semplice fedifrago al perverso sadomaso scoperto con oggettistica in vari orifizi e tutte rigorosamente con una buona percentuale di silicone in corpo. Ci sono un paio di casi verticali a episodio e le linee orizzontali riguardando invece le vite personali delle tre avvocatesse che nel frattempo devono affrontare piccoli e grandi drammi, incastonati tra ville degne di Selling Sunset, Maserati e gioielli i cui carati non sono numerabili. Gli ingredienti sembrerebbero quelli di un legal drama patinato, non indimenticabile ma nemmeno inguardabile. Invece, il risultato è una serie in cui si fatica davvero a trovare anche solo un punto a favore. Partendo dalla confezione, All’s Fair è una serie ambientata in contesti di extra lusso che, dalla messa in scena, hanno invece un effetto di mera opulenza economica ma che trasuda cafoneria in purezza. Non c’è gusto, non c’è stile. Diamanti e pellicce, moquette arabescata, pareti a vetro che incorniciano case da ottocento metri quadri calpestabili senza un senso, uno charme, una ragione narrativa. Tutto è ostentato, spiattellato. Non solo visivamente. Cosa ben più grave, anche narrativamente. La serie tratta in modo didascalico e privo del benché minimo sottotesto (per non parlare di anche solo un vago tentativo di non superficialità) temi come la lotta al patriarcato, il femminismo, la cultura woke. Lo fa in modo così poco raffinato e basico da produrre l’effetto contrario ovvero rendere le protagoniste delle macchiette che si muovono freneticamente sulla scena. I conflitti narrativi (sparuti miraggi) sono tutti appiattiti poiché non vengono fatti vivere nella drammaturgia ma semplicemente riportati oralmente. Personaggi a cui è davvero difficile appassionarsi poiché non sono veri bensì simil cartonati che soffrono di adamantina bidimensionalità. Kardashian è l’emblema di questa fissità: zero mimica facciale, zero interpretazione. Fa sé stessa ma non è una guest star della serie, è una delle protagoniste. Ci si chiede onestamente che cosa avesse in mente Ryan Murphy quando ha pensato a questa serie: cosa voleva raccontare? Qual era l’idea alla base della narrazione? Con che linguaggio voleva trasmettere? Domande destinate a rimanere insolute. Forse, nel caso specifico, meglio non sapere.
Qual è il tono della serie in tre battute?
“Il lavoro è il mio modo di rilassarmi”
“Capire chi vuoi essere e come vuoi essere è il lavoro da fare se vuoi essere scelta”
“Felice anniversario, baby. Vieni da papà”
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