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come cambia la tv

Fenomenologia di Rete 4, il braccio politico di Mediaset

Andrea Minuz

Si chiude il modello Emilio Fede, appiattito su Forza Italia, e s’avanza la compagnia di Bianca Berlinguer. L’obiettivo di Pier Silvio Berlusconi è il primato dei talk-show

Come certe spese pazze del calciomercato, come quei bomber a lungo inseguiti, presentati ai tifosi promettendo scudetti e Champions League, poi piano piano inghiottiti dalla panchina, il passaggio a Mediaset di Bianca Berlinguer resta una mossa abbastanza inspiegabile. “Da giorni mi interrogo sul perché una rete dovrebbe fare i ponti d’oro a un talk modesto come ‘Cartabianca’”, ha scritto Aldo Grasso, parlando di “asta incomprensibile” intorno a BB. Pare infatti che a Viale Mazzini stiano ancora brindando nei corridoi. Pier Silvio Berlusconi è invece convinto di aver fatto un affarone, e non vede l’ora di conoscere Mauro Corona (“lui è l’uomo della montagna e io del mare”, potrebbero anche scambiarsi le vacanze: Corona a Portofino in stand-up-padel, Pier Silvio che fischietta nei boschi col Poiana e s’arrampica insieme a Erri De Luca a torso nudo sulle alpi). Lei, la diretta interessata, Bianca Berlinguer, ex zarina di Rai 3, neo retequattrista di punta, confessa che andando via ha avuto la sensazione di “aver risolto un problema alla Rai”. L’operazione Berlinguer è stata già benedetta alla presentazione dei palinsesti Rai a Napoli coi complimenti di De Luca alla dirigenza seduta in prima fila, “bravi… avete tirato questa sòla a Mediaset”, commento tecnico secco e risoluto (circolava la stessa battuta quando la Rai mollò a Sky la cerimonia dei “David”, ma la sòla tornò al mittente due anni dopo). Mediaset in ogni caso ci crede. Punta tutto sull’arrivo della carovana Berlinguer, con Corona, la Di Cesare, Orsini, la colonia del “Fatto Quotidiano”, il giornale più ospitato in trasmissione, Scanzi in testa. Bianca Berlinguer è già il Pino Insegno di Rete 4, anche per lei ci saranno non uno ma due programmi, tra cui “Stasera Italia”, dove si alternerà con Nicola Porro (non felicissimo), e poi contratto pluriennale fino alla pensione, sfondamento del tetto stipendi Rai e spostamento di Mario Giordano dal martedì al mercoledì per farle spazio. Messi tutti insieme i retequattristi fanno ora impressione, come un dream-team, i New York Cosmos o gli Avengers dei talk-show: Augusto Minzolini, Mario Giordano, Gianluigi Nuzzi, Paolo Del Debbio, Giuseppe Brindisi, Nicola Porro featuring Giuseppe Cruciani, forse prossima spalla a “Quarta Repubblica”, infine lei, la new entry, il colpo di mercato, Bianca Berlinguer. Ci si domanda però quale sia l’agenda, il fil rouge, la linea di condotta di questo Frankenstein dell’informazione assemblato con pezzi molto diversi, a parte il solito “gran casino da mettere su”, lievito madre di ogni talk-show che si rispetti, altrimenti, come ricorda sempre Fedele Confalonieri, “chi se li guarda?”.

C’è però casino e casino. Che quello di “Cartabianca” fosse già sintonizzato su temi, motivi, cifre stilistiche del retequattrismo era chiaro a tutti, specie dopo la creazione del freak geopolitico Alessandro Orsini. Ora però, con un palinsesto della rete che sembra costruito intorno a Bianca Berlinguer, bisognerà capire cosa succede. Pier Silvio Berlusconi la chiama “la fase 2”, come un’operazione paramilitare. Cambiare la rete, rivoltarla definitivamente, spostarla tutta sulle news, “con un pubblico sempre più trasversale e professionisti di peso come Bianca Berlinguer, il nostro ideale per fare un passo in avanti”. Passo in avanti nella caciara, però, coi No vax e pro Putin sempre invitati in nome del “pluralismo”. La vecchia Rete 4 sarà comunque un ricordo lontano. E come la fine dell’èra D’Urso su Canale 5 invita a bilanci complessivi sulle mutazioni del trash, l’alba dell’èra Berlinguer a Rete 4 apre un nuovo capitolo nella galassia dei talk-show in lotta contro il “pensiero unico”. Il fatto poi che Berlinguer entri al posto di Barbara Palombelli, unico volto rassicurante e moderato della nostra Fox, è in fondo una dichiarazione d’intenti bella e buona.

Quand’eravamo giovani Rete 4 era il canale delle nonne. C’erano gli omonimi “Bellissimi” in seconda serata, vetrina per sfoggiare le sconfinate library di film del Cav. e una sfavillante Emanuela Folliero, ma il clou della rete erano i lunghi pomeriggi con Patrizia Rossetti. Era lei il volto di Rete 4. Più o meno dopo l’ora di pranzo, tra una chiacchiera confidential e l’altra, si lanciavano soap a raffica: “General Hospital”, “Sentieri”, “Topazio” e “Manuela”, telenovela italo-argentina che andava anche in prime-time, tenendo tantissime nonne e zie incollate sui loro divani ancora incellofanati. Un cast pazzesco, con Fabio Testi, l’idolo sudamericano Grecia Colmenares e cameo enigmatici di Giorgio Mastrota, da poco eletto “uomo più bello d’Italia” (ma il concorso era pilotato, rivelerà poi anni dopo). Anche chi non l’ha mai vista ricorderà la sigla cantata da Julio Iglesias, riarrangiata per l’edizione italiana dal maestro Stelvio Cipriani, un refrain immortale come il “mareee profumo di mareee” di Little Tony sui titoli di “Love boat”.

I pochi tentativi di cronaca della nuova rete Fininvest, inaugurata nell’estate del 1982 come Italia 1, andavano male. “Linea continua”, costruito in tutta risposta a “Telefono giallo” di Augias, condotto da Rita Dalla Chiesa, nonostante un magnifico titolo da sinistra extra-parlamentare, aveva chiuso dopo una stagione. Il pubblico di Rete 4 non voleva saperne. Voleva storie di amori impossibili, tradimenti, corna, eredità improvvise, figli illegittimi e perfidi antagonisti, meglio se in salsa sudamericana. L’idea di una rete costruita intorno al pubblico femminile era stata di Enzo Tortora, primo direttore artistico di Rete 4. Una scelta che si rivelerà vincente proprio grazie al diluvio di telenovelas che arrivarono in massa alla fine degli anni Ottanta. Anche dopo la svolta giornalistica, la nascita del Tg4 di Emilio Fede, lo scoop della guerra in Kuwait, le dirette con Paolo Brosio impalato al Palazzo di Giustizia di Milano, Rete 4 restava intrappolata nell’immaginario delle soap e del varietà coi lustrini, come “W le donne” e “Grand Hotel”. Non era ancora la nostra Fox News. Poi però, dalla fine degli anni Novanta in su, Rete 4 inizia a traghettare pian piano il suo pubblico verso la politica, ben oltre lo spazio dei tg di Emilio Fede. Il taglio giornalistico, ma anche la divulgazione culturale un po’ fantasy-trash, tipo “La macchina del tempo”, iniziano a fare piazza pulita delle vecchie soap. E’ qui che si gettano le basi di una nuova rete. E’ la genesi del retequattrismo, progetto ideologico-televisivo che dai e dai trasforma la vecchia rete di Patrizia Rossetti e Grecia Colmenares nel braccio politico di Mediaset. La sua “brigata Wagner”. Un manipolo di spretati passati dentro attraverso l’arco parlamentare, con dentro qualsiasi cosa purché all’occorrenza pronto a unirsi a testuggine, quindi anche scheggia impazzita, armata incontrollabile, organismo geneticamente modificato capace di assumere varie sembianze politiche, certo non più la tv dei berluscones o di Forza Italia, come all’epoca di Emilio Fede (anzi, possiamo dire che Rete 4 ha progettato il suo futuro con largo anticipo rispetto allo stallo di Forza Italia nel dopo Cav.). Allo strampalato miscuglio di populismo paranoico-complottista e destra sovranista che in questi anni è stato la cifra dei talk di Rete 4 si aggiunge ora il brand “Berlinguer”, quindi il nome, il lignaggio, il prestigio di un radicamento nella storia nobile del paese. Il seme della rete però è sempre quello. Come se l’ombra del populismo piagnucolone, dei sentimenti feroci da telenovelas sudamericane coi loro colpi di scena improbabili, si fosse allungata sulle modalità del racconto della politica: Rete 4 come il Venezuela di Mediaset. Lo stesso pubblico di “Topazio” e “Manuela”, ma ora incazzato e rabbioso, spaventato dai migranti, dai rom che non pagano l’acqua, dai ladri in casa a ferragosto, dalla sostituzione etnica, dai viaggi organizzati dell’Inps, da Bibbiano, dai vitalizi, dalle banche, dalle pensioni d’oro, dai rumeni che ti prendono a bastonate sotto casa, dalle cavallette, dalla carne sintetica, dai grilli al curry (e viene da pensare che Mario Giordano urli così tanto contro la telecamera solo per essere certo di farsi sentire dal suo anziano pubblico, come Repubblica quando ingrandì i caratteri del quotidiano).  In una puntata ormai celeberrima sulla difesa del cibo italiano, dal titolo “Cous Cous Klan”, Mario Giordano trasformava “Fuori dal coro” nella versione sovranista de “La prova del cuoco”, mettendo in scena il triste funerale del pomodoro pachino. “Stiamo perdendo le nostre ricette, stiamo perdendo la nostra pasta italiana, il nostro sugo bello denso” (Giordano con le labbra mimava il ribollire della salsa). In collegamento c’era una signora “che fa i cappelletti in casa come una volta”. Quindi tutto un mondo destinato a scomparire per colpa dei “programmi chimici delle multinazionali”, la variante alimentare della sostituzione etnica, forse ben più temuta dalle nostre parti. Tra qualche anno, spiegava Giordano, le nostre tavole saranno ricolme di “cavallette, insetti, grilli e locuste al vapore”. Nel finale, inseguiva il cesto di pachino che l’addetto alla regia portava via dallo studio urlando “noooo, il pomodoro noooo…”, correva, agitava le braccia per aria, le immagini sembravano velocizzate, come nelle vecchie comiche del muto (non a caso, Renato Franco ha definito Mario Giordano “l’unico vero stand-up comedian della tv italiana”). Sopravvissuto a tutte le rivoluzioni editoriali di Rete 4, Giordano coglie un punto cardine del retequattrismo; la continuità di gran parte del pubblico dei talk della rete con la tv del mattino, i cooking-show di mezzogiorno, le televendite continue di pentole, materassi e poltrone mobili (come diceva il maestro Funari, “te devi abbassa’ al gradino più basso, corteggiare senza pudore le casalinghe”). Il retequattrismo è poi un modello di business. Non solo puntare sui talk-show, secondo la lezione di Cairo, con l’unica spesa dei buoni-taxi per gli ospiti invitati in trasmissione, ma registrare tutto nello stesso studio. Per esempio può capitare che la regia di “Controcorrente” mostri a un certo punto Roberto Fico in attesa di essere intervistato da Veronica Gentili, però il movimento della telecamera è un po’ troppo ampio, il cameraman è distratto, e alle spalle di Fico spuntano le tribune di “Quarta Repubblica”, che per lo spettatore va in onda il giorno dopo ma che si gira quasi in contemporanea negli studi Palatino, a Roma (lo raccontava TvBlog in un pezzo dello scorso anno: la scenografia di Porro è in fondo a destra, quella di “Controcorrente” al centro, a sinistra la scrivania di Palombelli, ormai reliquia di un prossimo “museo di Rete 4”, che però poi si trasformava nel desk di Veronica Gentili formato week-end). E poi Rete 4 è martellante. Non va mai in vacanza. I conduttori si danno il cambio, fanno la staffetta, come a Telethon. Mentre tutti gli altri o quasi stanno al mare, Rete 4 dà ampio spazio alle minacce del rapper islamico “Baby gang” a Salvini e si cucina a fuoco lento “il caso La Russa”. Ecco “Zona Bianca” con Giuseppe Brindisi e gli audio su “tutti i misteri di quella notte”, le chat della ragazza lette da Alexa e telefonate a frequentatori dell’“Apophis”, la discoteca “extralusso dove per entrare servono cinquecento euro l’anno”, come a dire che comunque vada qui sono un po’ tutti dei degenerati.

I passaggi Rai-Mediaset, Mike Bongiorno a parte, hanno una lunga storia di flop alle spalle, dal “Moby Dick” di Santoro a “Festival”, il varietà con cui Pippo Baudo arrivò con gran clamore a Canale 5 per sbaragliare la Rai senza riuscirci, ritornando poi in ginocchio a Viale Mazzini poco tempo dopo. Ci riprovò una seconda volta. Anche allora lo stesso rituale di Berlinguer: le voci incontrollate, lo spettro della tv svizzera, la Discovery dell’epoca, per un perfetto ritiro alla Mina, poi la lettera di dimissione al presidente della Rai, Enzo Siciliano, e Baudo che specificava di “aver votato per l’Ulivo”, come Berlinguer oggi ricorda di essere “sempre stata di sinistra” (è una tappa obbligata del passaggio a Mediaset: spiegare sempre che si è stati o si è di sinistra e che non si è mai votato per il Cav., come se Maria De Filippi andandosene un giorno in Rai dovesse specificare, “però sia chiaro che non ho mai pagato il canone”). All’epoca però il Cav. fiutò il flop nell’aria. Quando Baudo, pentito per il trasferimento, andò ad Arcore per rescindere il contratto, Berlusconi gli rispose che non poteva fare una “così brutta figura davanti a tutti e che c’era una penale da pagare”. “Lui sapeva tutto di me, sapeva che non avevo tutti quei soldi”, racconta Baudo, “allora mi chiese di cedergli un palazzo di mia proprietà che gli stava molto a cuore”. Baudo era amareggiato, disse di sì, che andava bene, e che poi si sarebbero rivisti per firmare. Fece per andarsene ma il Cav. lo fermò: “Ma dove va, firmiamo subito!”. Si aprì una porta, entrò un notaio, c’era già l’atto pronto con le particelle catastali. “Berlusconi aveva previsto tutto, non potei neanche trattare sulla vendita”. Il palazzo era quello davanti la sede della Fao, a Roma, a due passi dal Circo Massimo. Diventerà poi la sede del Tg5. Mentana lo ribattezzò “Palazzo Baudo”. Pare che Berlusconi ci avesse messo gli occhi sopra da tempo. Chissà, forse dietro il passaggio a Canale 5 di Baudo con flop incorporato c’era solo questa spregiudicata operazione immobiliare. Certo il Cav. non c’è più, i tempi sono cambiati, però fossi in Berlinguer blinderei tutte le proprietà prima dell’avvio della stagione.