Volodymyr Zelensky (Ansa) 

l'editoriale del direttore

Gli stolti che odiano Zelensky. A Sanremo va in onda il festival della farsa italiana

Claudio Cerasa

Un testo scritto sì, un messaggio video no. La polemica sulla la presenza virtuale del presidente ucraino è una delle scene più patetiche mai registrate nella tv italiana. Perché, sulla difesa dell’Ucraina, la Rai dovrebbe assecondare il modello Maneskin: “Fuck Putin”

Eh, ma spettacolarizzare la guerra: mica si può. Eh, ma dare spazio soltanto a una parte: mica è giusto. Eh, ma non dare voce a chi vuole la pace: mica è corretto. Eh, ma portare la politica al Festival: mica è saggio. Lo diciamo con il massimo rispetto possibile e con la massima sobrietà consentita. Ma la polemica senza cervello che ha accompagnato la presenza virtuale del presidente ucraino Volodymyr Zelensky al Festival di Sanremo è una delle scene più patetiche mai registrate in tempi moderni nella televisione italiana e nel dibattito pubblico correlato. Alla fine è andata come sapete. Alla fine al presidente Zelensky verrà concesso di inviare un testo che dopo essere stato vagliato dalle strutture Rai verrà letto dal conduttore e direttore artistico del Festival, Amadeus.

E per quanto sia comunque portare sul palcoscenico più celebre del nostro paese le parole del capo di un paese democratico assediato da un anno da un presidente macellaio alla guida di uno stato che combatte con metodi terroristi, il Festival della canzone italiana verrà ricordato come il primo evento pubblico all’interno del quale a Zelensky non è stato concesso di mostrare il suo volto. Non sappiamo se la decisione di non mostrare il volto è una decisione del Festival o è una decisione che arriva dalla diplomazia ucraina, dopo aver visto le polemiche generate dall’annuncio della partecipazione in video del presidente ucraino. Sappiamo però che Zelensky ha partecipato a gennaio ai Golden Globe, ha partecipato mesi prima al Festival del cinema di Venezia, ha partecipato mesi prima al Festival di Cannes, ha inviato la scorsa estate un messaggio video all’Eurovision e ogni palcoscenico extrapolitico che gli è stato concesso ha permesso al suo paese non di alimentare la propaganda bellicistica ma di aggiungere un mattoncino nella costruzione di un’identità globale che solo per gli stolti non rappresenta musica per le orecchie dei paesi democratici. 

 

Avere uno Zelensky in prima serata, su uno dei più importanti palcoscenici del mondo, non avrebbe significato, come sostiene la Vauro-Conte-DiBattista-Moni Ovadia-Freccero Associati, voler trasformare un grande show in un megafono della guerra ma avrebbe significato qualcosa di diverso: avrebbe confermato l’impegno assoluto della più grande impresa culturale del paese a utilizzare ogni suo mezzo a disposizione per ricordare che al centro della battaglia che sta combattendo l’Ucraina vi è la difesa della democrazia, dell’occidente, della società aperta e della nostra libertà. Dieci mesi fa, in California, il più importante gruppo musicale italiano, i Måneskin, hanno urlato dal parco “Ucraina libera, fuck Putin”. Giorni dopo, Damiamo, la voce dei Måneskin, spiegherà che quell’urlo lo rifarebbe tutta la vita, “perché come personaggi pubblici abbiamo un potere enorme: la tendenza a essere sempre neutrali per non perdere o guadagnare pubblico la trovo anti artistica, paracula”. Più Måneskin, meno Moni Ovadia. Il successo del Festival, quest’anno, si misurerà anche così.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.