La televisione italiana è razzista?

Manuel Peruzzo

Dall'imitazione dei cinesi fatta da Gerry Scotti e Michelle Hunziker a Striscia la notizia, agli sketch di Ciao Darwin e al blackface di Muniz. I programmi tv ne sono pieni, ma siamo sicuri che una battuta idiota indebolisca qualcuno?

Gerry Scotti e Michelle Hunziker sono i nuovi Dolce e Gabbana. Striscia la notizia è finita su Diet Prada, il Robespierre di Instagram, e quasi 3 milioni di follower si sono visti questi due bianchi imitare gli asiatici simulandone l’accento e gli occhi a mandorla. Colpevoli! I soliti boomer sinofobi cresciuti con quel fascio di Disney e i film di John Landis. E ci si è divisi tra “che stronzata” e “licenziateli!”. Siccome i secondi sono più rumorosi, per scongiurare borsette Trussardi bruciate, patrimonio famigliare, Hunziker s’è affrettata a scusarsi in inglese su Instagram. E poi anche sul Corriere insieme a Gerry, col solito balletto di scuse e contrattacco: ci dispiace tanto, siamo contro ogni discriminazione, io ora ricevo minacce di morte, sapete che sono mezza cinese? A me per anni hanno dato dell’obeso e del pelato, siamo affranti ma siete un po’ fascisti.

 

Qualsiasi intellettuale newyorkese progressista tra la tv italiana e una pistola preferirebbe che il figlio giocasse con la seconda. In tv vedrebbe: cantanti con la faccia dipinta di nero (appropriazione culturale, razzismo), attrici che interpretano suore (cattocentrismo) che si guardano in foto e commentano “sono brutta come una negra” (razzismo, e un filo di ageismo interiorizzato), gag in cui si dice “negro” e non “n word” come ti hanno abituato le giornaliste della Cnn; relazioni tossiche con uomini gelosi che minacciano donne che frignano (misoginia, rape culture); etero dire di fare il ricchione per hobby, ma: “Non faccio solo il ricchione, gioco anche a pallone” (se ridi sei complice). Per non parlare di Amici che privilegia la forza e il talento di giovani ballerini scolpiti e perfetti a discapito dei disabili in carrozzina (per ora, ma non poniamo limiti: tira su le punte, anzi le ruote).

 

 

Tempo fa un giornalista, David Adler, ha commentato così Ciao Darwin: “Gli italiani applaudono mentre una straniera nera viene affogata in una vasca d’acqua per aver risposto male a delle domande”. Pensa se si fosse trovato di fronte a Simona Ventura che faceva affogare Miccio nello slum. Verrebbe da unirsi al coro e dire vergogna, vergogna, vergogna, ma come dice Antonio Ricci “a Striscia lo può dire solo il Gabibbo che è un pupazzo”. E poi neanche lì si può dire qualsiasi cosa: le parolacce di Alessandra Mussolini per esempio sono censurate.

 

Nel primo capitolo dell’èra della suscettibilità, Guia Soncini descrive questi tempi come la morte del contesto, cioè possiamo googlare tutto ciò che non conosciamo, evitando l’equivoco, eppure: “Aboliamo il dubbio e condanniamo chi ha violato le regole da noi immaginate chiamando a raccolta l’indignazione collettiva”. È il modello TripAdvisor applicato ai consumi culturali: se non mi piace deve chiudere. Soncini qui sceglie d’essere ottimista perché purtroppo, come sa, anche quando il contesto, il tono, e le circostanze sono chiare non basta a scongiurare l’accusa di “ismo”. Per lo storico David Forgacs è razzismo se canti i Watussi, e Stuart Hall, il padre dei cultural studies, aveva abbassato di molto la barra descrivendo il razzismo non come “io odio i negri” ma “bevo il mio tè e rimuovo che questo segno della mia inglesità in realtà è un prodotto coloniale”. Non è chiaro però se con Luigi Risotto dei Simpson dovremmo sentirci feriti.

 

 

C’è un’altra parte del discorso da fare: siamo sicuri che una battuta idiota indebolisca qualcuno?

 

Trattare le gag di Luca e Paolo allo stesso modo di un’uscita infelice, o l’umorismo anacronistico di due conduttori come lo schiavismo a Rosarno, non ci rende migliori, rischia solo di appiattire ogni rimostranza, sottolineare il nostro narcisismo, posizionarci dalla parte giusta come forma di violenza intellettuale. Per l’antropologo Jonathan Friedman in questi casi: “Il valore sociale diventa più potente del contenuto semantico”, non conta quello che dici, conta solo l’associazione che decido di fare io con quello che hai detto. La maledizione di essenzializzare le persone: sei quello che dici, anzi sei ciò di cui hai riso.

 

È vero: abbiamo imparato a non pulirci con la tovaglia, possiamo imparare a non disprezzare gli stranieri. Ma imporre a tutti ciò che ci fa o non ci fa ridere, dire agli altri cosa possono e non possono dire, è puro moralismo. È la sopravvalutazione del linguaggio sulla realtà. È l’imitazione della censura della classe dominante ma nei confronti di ciò che immaginiamo essere inaffrontabile: gli occhi a mandorla per qualcuno saranno offensivi, altri se ne fregheranno. Così come migliaia di gay non soffrono per le imitazioni di polsi spezzati e birignao. Paul Valéry ha scritto che il grande trionfo dell’avversario è farci credere ciò che dice di noi. La cartina tornasole della propria debolezza è la suscettibilità.

 

 

Voglio concludere con uno che di manganellate per essere nero ne ha prese parecchie. Bayard Rustin, stratega di Martin Luther King, nel 1951 scrisse riguardo al colorarsi la faccia di nero: “Penso che in futuro arriverà il tempo in cui i negri saranno accettati nella vita sociale, economica e politica del nostro paese in cui non sarà più problematico fare questo genere di cose”, intendeva dire che, pur riconoscendo il fastidio della caricatura da parte del tuo oppressore, si augurava un mondo egualitario, universalista in cui ridere dei neri come degli irlandesi, degli italiani e di chiunque altro, non per sdoganare l’insulto ma semmai per depotenziarlo, parificarlo, democratizzarlo, fino a renderlo innocuo. Chissà se e quando arriverà mai quel momento per la società italiana. Chissà se esisterà ancora la televisione.