Manca il nemico in Catch 22, la serie che vietnamizza la Seconda guerra mondiale

Ok l’antimilitarismo di George Clooney, ma quel conflitto non fu insensato

Piero Vietti

Roma. A pochi giorni dalle celebrazioni del D-day, lo sbarco degli alleati in Normandia che diede inizio alla liberazione dell’Europa dal nazifascismo, è istruttivo guardare la miniserie di George Clooney in onda su Sky Atlantic, Catch 22. La storia, divisa in sei puntate, è tratta dall’omonimo romanzo del 1961 di Joseph Heller e racconta le vicende di un gruppo di aviatori americani che fanno base a Pianosa. Da lì partono quotidianamente in missione per bombardare l’Italia. Siamo verso la fine della Seconda guerra mondiale, un ultimo sforzo e i tedeschi saranno battuti. Il capitano John Yossarian è il personaggio simbolo del romanzo e della serie tv. Partito per l’Italia con l’idea di tornare presto in patria, Yossarian resta intrappolato nella guerra che il suo paese sta combattendo: innanzitutto dal regolamento dell’esercito americano, che al comma 22 recita: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.

 

 

Intoppi burocratici, improvvisi aumenti del numero minimo di missioni da compiere prima di essere congedati, un dispetto del tenente Scheisskopf (interpretato da Clooney), con la cui moglie Yossarian andava a letto in America: ogni volta che sembra finita, succede qualcosa che lo costringe a continuare a combattere. Yossarian è Josef K. che va in guerra senza sapere perché, Giovanni Drogo che sale su un aereo e bombarda il deserto dei Tartari. Con il passare delle settimane perde tutti gli amici, che muoiono in circostanze a volte inevitabili e terribili, altre evitabili e stupide. Yossarian non può fare nulla per impedirlo, e quando suggerisce a un giovane soldato di non stare alla mitragliatrice in coda dell’aereo perché lì pochi giorni prima era morto un suo compagno, il giovane soldato viene colpito dall’artiglieria nemica a metà velivolo. Yossarian non muore, non riesce neppure a fare quello, ma ripete all’infinito missioni tutte uguali, non vede mai il nemico, solo obiettivi segnati su una cartina a centinaia di metri più in basso. Tutti i rapporti che instaura vanno persi, con gli italiani che conosce (a tratti macchiette da film neorealista un po’ fuori tempo massimo) non riesce a parlare per via della lingua diversa. Obbedisce a comandi di superiori tratteggiati come emeriti cretini, dei maniaci delle regole fini a se stesse senza alcun ideale, intrappolati anche loro in un comma 22 permanente: e quando Yossarian decide di fare il gesto folle che si vede nella prima scena – girare nudo per la base ricoperto dal sangue di un suo compagno morto – neppure quella protesta silenziosa e assurda scalfisce i ritmi della burocrazia militare, fatta anche di personaggi meschini pronti a fare affari commerciali con il nemico.

 

Ed è proprio il nemico il grande assente di questa storia: in Catch 22 non si vede mai, i nazisti vengono nominati un paio di volte al massimo, la battaglia di Yossarian è assurda, combattuta contro un nulla lontano e quasi inesistente. Quando vola sopra agli obiettivi da colpire noi vediamo solo le esplosioni della contraerea, non sappiamo chi sta sparando, né da dove. L’idealismo non va più di moda, l’ideale è stato dato per morto da tanti, la grottesca tragicità di Catch 22 vuole ricordarci la brutalità spesso insensata della guerra. Ma lo fa parlando a un mondo diverso da quello degli anni in cui uscì il romanzo, un mondo in cui si è persa l’idea di “nemico”. “Ho una confessione da fare – disse molti anni dopo l’uscita del libro lo scrittore Joseph Heller – Durante la mia esperienza di guerra non ho mai provato nulla di simile a Catch 22: ero giovane, era una guerra nobile, nessuno che conoscevo era davvero contrario a combattere”. La guerra è brutta, terribile, sporca e drammatica. Ma non tutte le guerre sono uguali. Se in nome dell’antimilitarismo bisogna trasformare il conflitto mondiale che ha permesso all’occidente di avere oggi la democrazia in una sorta di Vietnam, c’è qualcosa che non va.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.