la fine del mondo sarà colpa nostra

Parlare, litigare, innamorarsi dei bot. È l'èra del sovradosaggio di imbecillità

Ester Viola

Per trent’anni il mondo occidentale è diventato statisticamente sempre un po’ più intelligente. Ogni generazione imparava meglio della precedente. Poi tutto ha cominciato a rallentare, anche il cervello collettivo. Una specie di democrazia cognitiva della resa

La fine immaginata e pure plausibile era che l’umanità crollasse con un grande botto. Inghiottiti da una voragine. Era una fine dignitosa, violenta, non dico senza colpe ma si sarebbe trattato di ordine delle cose, un quid qualunque che degenerava in modo repentino e con limitatissima capacità di intervento di nessun santo. L’atomica, la guerra climatica, un virus, un asteroide. E invece la disillusione estrema: non saremo vittime delle circostanze, potrebbe ucciderci un sovradosaggio di imbecillità. E dire che c’erano tutti i sintomi della malattia. Bastava notarli. La morte del sarcasmo, come abbiamo fatto a ignorarla? Sarà forse iniziato tutto da lì? E la perdita di senso del tono, del contesto, tutto offende se non me lo spieghi bene. Oggi intere comunità digitali necessitano di faccine esplicative e di mail scritte all’uncinetto altrimenti si risentono, la conversazione è tossica, passivo-aggressiva, io me ne vado! Tutto si prende male, ogni fiato è un attacco personale. Si tirano lunghe pive per niente, come i complessati. E così l’indignazione è diventata indistinguibile dalle cose che contano, le cose serie sono indistinguibili dall’intrattenimento, e l’intrattenimento è diventato indistinguibile da tutto.

 

Su altri piani si è giocata perfino una partita peggiore. Abbiamo attraversato anni di body positivity performativa. E ci siamo detti che siamo tutti belli così, anche i brutti. Guai a commentare i corpi, vi ricordate gli anni 90, che barbarie, sui giornali in estate mettevano la dieta dello champagne? Tutto questo predicare virtuoso accadeva mentre sceglievamo l’angolo giusto della foto, aggiustando le occhiaie coi filtri. Poi, dal 2015, a furia di botox e filler, abbiamo voluto tutte la stessa faccia identica. Il colpo di grazia è arrivato con le iniezioni per diabetici. Vuoi dimagrire ma non ti va di applicare disciplina? Che sarà mai una siringa al giorno di medicinale che induce la nausea. Gli effetti sono incontrollati? Non fa niente, se in cambio mi danno la taglia quaranta. Instagram ha imposto un tagliando estetico, e il modello è parecchio irraggiungibile. Pensavo che la linea della ragionevolezza fosse stata per sempre superata la scorsa estate, con l’ultima avvisaglia di cervelli compromessi, quando ho letto che il primo utilizzo delle AI – una manna tecnologica che è piovuta a toglierci le rogne ripetitive di ogni lavoro – non era farsi servire dall’apprendista e appaltare le email moleste dell’ufficio, ma scrivere a lungo, confidarsi e chiedere pareri su come mi sento io, io, io.

 

Anche in quel caso mi sbagliavo. Giorni fa ho avuto il mio personalissimo picco del “non può essere vero”, il più forte mai sperimentato. Stiamo per registrare – si legge – un aumento delle richieste di divorzio perché le relazioni hanno un nuovo nemico: molte persone di sera preferiscono parlare col loro chatbot. Mi ricordo quando per lasciarsi serviva almeno un amante, un disinteresse concreto, uno sfregio metaforico con altra carne umana. La concorrenza sleale la fa l’avatar. Dagli amici immaginari dei social di dieci anni fa agli amici immaginari sintetici. Parliamo da soli, come i pazzi. Siamo arrivati alla fine del mondo? Il New York Magazine ha pubblicato quello che è probabilmente l’articolo dell’anno. Non perché sia originale – altri hanno già visto che il re nudo gira in realtà senza mutande da anni, ovunque – ma perché raccoglie tutti i dati e mette una riga algebrica, toglie tutti i meno dai pochi più e il numero finale non è buono.

 

Per trent’anni il mondo occidentale è diventato statisticamente sempre un po’ più intelligente. Ogni èra è stata la migliore. La curva dei risultati scolastici saliva: ogni generazione imparava meglio della precedente. È andata così per sempre, tanto che si pensava: non esiste un plateau. Poi tutto ha cominciato a rallentare. E dopo il rallentamento, si va indietro. Inutile liquidare con “la generazione Z è scema per colpa di TikTok”, sarebbe ottimismo cosmico. La verità è magnificamente documentata: il declino non riguarda loro, sta prendendo tutti. Si legge poco, si ricorda quasi niente. Il cervello collettivo sta rallentando, i dodicenni fanno scroll, i cinquantenni idem, i sessantenni litigano con i bot, i quarantenni si innamorano dei bot. Una specie di democrazia cognitiva della resa.

 

Ci sono già stati brevi periodi di stupidità come costume, poche volte di stupidità come condizione. Qui abbiamo una specie di trauma diffuso, un arresto comune. C’è una bassa pressione che ci affligge. Se ne deve uscire, e ne usciremo. Come vogliamo fare? Chi comincia? E soprattutto: a fare che?

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