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OpenAI contro Google, da un codice rosso all'altro
Come Google nel 2022, la società di Sam Altman deve fronteggiare la crescente concorrenza nel settore delle AI. Ma la strategia difensiva si regge sul brand e sull’abitudine degli utenti
Come passa veloce il tempo. Appena tre anni fa (l’anniversario preciso era domenica scorsa) OpenAI metteva online ChatGPT, chatbot su cui non puntava granché ma che si rivelò virale. Anzi, viralissimo. Anzi, rivoluzionario, innescando di fatto la corsa alle intelligenze artificiali generative che è tuttora in corso – e, secondo alcuni, sta sostenendo da sola l’economia statunitense.
Ma qui non c’entrano le bolle vere o presunte. All’epoca, infatti, il successo di ChatGPT mandò nel panico molte aziende ma soprattutto Google. Perché un chatbot tanto potente indicava chiaramente un cambiamento all’orizzonte, in cui gli utenti non andavano più su un motore di ricerca a digitare parole chiave nella speranza di trovare il risultato desiderato, ma si limitavano a chiedere alla macchina. La quale rispondeva.
Non è un caso che a poco meno di un mese dal lancio di ChatGPT, Sundar Pichai, capo di Google, emise un codice rosso interno: emergenza assoluta, quindi. L’obiettivo era di rivedere tutto, i capi progetto, le priorità, i team e i budget per far ripartire una macchina enorme che si era un po’ sopita. Ebbene, a tre anni da quel momento, ora tocca a OpenAI a fare la stessa cosa: questa settimana, infatti, Sam Altman ha dichiarato un codice rosso per rispondere alla crescente concorrenza nel settore delle AI. In particolare, all’azienda che con il suo ultimo modello, Gemini 3, aveva di fatto superato tutti, ChatGPT compresa: Google.
Mai come in questo momento OpenAI è sembrata diversa dalle altre grandi aziende del settore. A differenza di Google, Meta, Microsoft, ad esempio, OpenAI non può avvalersi di un ecosistema enorme di servizi di ogni tipo: l’azienda guidata da Altman dispone quasi esclusivamente dei suoi modelli linguistici. ChatGPT resta il chatbot più noto al mondo, ma la strategia difensiva si regge sul brand e sull’abitudine degli utenti. Se Google comincia a incorporare Gemini nativamente in Gmail, Drive, Docs e nell’intera suite dell’azienda, sempre più utenti possono fare il grande passo. Nel nome della convenienza.
I successi recenti di Google non nascono dal nulla. La tecnologia alla base dei moderni modelli linguistici, il Transformer, è stata infatti sviluppata proprio da ricercatori dell’azienda, che pubblicarono uno storico paper nel 2017. Per anni Google ha posseduto gli strumenti per dominare il settore, ma non è riuscita a convertirli in prodotti (o non ci ha provato). Ci voleva uno shock, una terapia d’urto, che è arrivata il 30 novembre 2022, quando OpenAI lanciò in sordina ChatGPT. Seguì il codice rosso di Pichai e una lenta manovra di riallineamento, che oggi sembra conclusa, o a buon punto.
Non è solo software, però: Google ha ottenuto un’ulteriore vittoria con l’hardware. Gemini 3, infatti, è stato addestrato senza nemmeno una GPU di Nvidia, diventate lo standard industriale per l’elaborazione dei modelli. Per sviluppare il suo nuovo, potentissimo, modello Google ha usato le proprie TPU, chip progettati specificamente per il machine learning, e che ora fanno gola anche a Meta, che ha annunciato di volerne comprare una certa quantità. Subito il titolo Nvidia ha accusato il colpo, perché il suo monopolio nel settore è sembrato traballare.
È tutta questione di vantaggio competitivo, o di “moat” (fossato), come si dice in inglese. L’idea è che ogni azienda debba difendere il proprio prodotto dalla concorrenza e più quello che fa è unicamente suo, meglio è; nel momento in cui il fossato viene eroso o coperto dagli altri, chiunque può attaccarti. Fuor di metafora, OpenAI ha ancora un fossato attorno al suo ChatGPT, il chatbot più noto e usato al mondo, che continua a crescere. Il rischio, però, è che questi strumenti subiscano una commoditizzazione, che il chatbot diventi una merce come un’altra, per cui tra ChatGPT, Gemini e Claude, per esempio, c’è poca differenza. E i consumatori passano da un prodotto all’altro, noncuranti.
Il parallelo tra i due codici rossi, quello di Pichai nel 2022 e quello di Altman nel 2025, chiude un cerchio simbolico. Allora fu Google a temere l’impatto di un sistema che sembrava sottrargli la leadership acquisita, mentre oggi è OpenAI a temere l’ascesa di Google. Altman ha parlato di “bad vibes”, un’atmosfera un po’ tesa, forse perché è diventato evidente che la competizione nel settore si giocherà anche sulla capacità di integrare i modelli in servizi e infrastrutture proprietarie. E, in questo, Google gioca in casa.
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