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l'analisi

Perché la bolla dell'AI non deve far paura

Oscar Giannino

Il vero guaio dell’Intelligenza artificiale: l’incapacità delle imprese di usarla con profitto. Più continuiamo a far solo convegni e a parlarne come un rischio, meno avremo dati e idee chiare

Sabato scorso il direttore del nostro caro Foglio ha scritto un articolo che mi ha colpito. Il tema: “Parlare di bolla dell’intelligenza artificiale non è più un tabù”. Ma non è questo il punto che mi induce a scrivere. Chiunque riceva newsletter delle principali banche e fondi d’investimento mondiali sa che da tempo il tema degli astronomici multipli finanziari e dei colossali flussi d’investimento delle big tech americane dell’AI pone agli analisti il problema di se, quando e con quali conseguenze esploderà la “bolla AI”. Ma è storicamente fisiologico che le grandi rivoluzioni tecnologiche generino fenomeni finanziari di elevata concentrazione di investimenti e capitalizzazione, con multipli eccessivamente rischiosi rispetto ai flussi concreti di utili attesi. L’esplosione delle bolle è altrettanto fisiologica, per riportare traumaticamente verso terra una finanza diventata lunare.

Certo, la perenne sfida per i regolatori finanziari è imparare da ogni crisi ad affinare gli strumenti volti a impedire crisi sistemiche e necessità di salvataggi. Ma l’esplosione non fa naufragare le rivoluzioni tecnologiche, al contrario ne rafforza i presupposti tecnologici e i fondamenti economici e finanziari. La crisi dot-com del 2021 alimentò nel mondo gli scettici e i nemici di Internet, ma tanto per fare un esempio Amazon e Google, che per anni non avevano generato profitti e nella crisi dot-com scesero verso l’abisso, per rispondere alla crisi di fiducia decisero che dovevano concentrarsi su tecnologie e modelli organizzativi ancora più avanzati, senza più poter contare su IPO stellari in cui i capitali accorrevano torrenzialmente senza far troppe domande (anche perché agli investitori era consentito rivendere al prezzo di picco in pochi giorni le loro quote, era questo il motore che trasformava le IPO del settore Internet in colossali strumenti speculativi). Come l’esplosione della bolla non uccise Internet, lo stesso avverrà se e quando esploderà la bolla finanziaria superfetata su AI.

Se una lezione abbiamo imparato noi che non siamo tecnofobi è quella di essere pronti a combattere contro tutti coloro che si scateneranno ripetendo che l’AI è uno strumento del male perché nemica dell’uomo, sia come decisore sia come lavoratore, i temi misoneisti ai quali si continua a dare enorme spazio in media e convegni. Il punto decisivo è un altro. Quello che il direttore solleva scrivendo “in molti scommettono sull’AI senza sapere in che modo genererà profitti”. Su questo, precisiamo. La domanda non è “quanti profitti genereranno OpenAI, Google o Meta”. Bensì “quanti profitti genererà l’adozione nelle imprese dei prodotti e software di AI offerti dai big tech”.

E la risposta a questa domanda dipende in concreto da due cose. La prima: quanto sia profonda la consapevolezza del tipo di AI che serve a ogni impresa e a ogni filiera di appartenenza. La seconda: quanto rapide e quanto estese saranno le sperimentazioni, prima di affinare le scelte. Perché, ad esempio in Italia, bisogna uscire dalle poche grandi imprese che la sperimentano oggi, bisogna ragionare sulle filiere italiane a partire dalle piccole e piccolissime aziende. C’è un problema culturale: moltissimi imprenditori non hanno ancora chiaro che l’AI che serve alle imprese non è semplicemente quella generativa, che “assiste” manager e lavoratori nell’ottimizzare decisioni e processi organizzativi, bensi l’AI generativa “agentica”, quella cioè che non si limita a fornire ricette su richiesta, ma è addestrata su dati ed esiti per non solo proporre, ma realizzare al fianco degli umani soluzioni nuove e meno sub-ottimali.

Il governo dell’Estonia, paese che ha già iperdigitalizzato la sua Pa e ogni suo interfaccia con cittadini e imprese, la settimana scorsa ha annunciato il varo di un progetto di AI agentica sperimentale, con lo scopo di verificare la gestione di interi settori della Pa guidati da un modello di AI che vari soluzioni (con l’ok umano) e non si limiti a proporle. E’ ovvio che il “modello agentico” chiama una rivoluzione socio-tecnologica dell’organizzazione e gestione sia delle aziende sia del lavoro. Ma la tecnologia per fare tutto questo c’è, e la big tech che copre la maggior fetta mondiale di applicazioni di AI per imprese non è la OpenAi di Sam Altman, che con la sua ChatGPT ha puntato sui clienti mondiali retail, ma è la Anthropic dei fratelli Amodio, italoamericani che fanno della sicurezza dei dati e del rispetto per gli utenti il fondamento del successo del loro modello Claude. Quindi, direttore, diamoci da fare perché le imprese italiane si organizzino in sfide per filiera di condivisione di dati e modelli applicativi di AI agentica messi in comune su vasta scala. Di lì verrà la risposta a quanti profitti si generano: dipende da quanto coraggio avranno gli imprenditori. Più continuiamo a far solo convegni e a parlare di AI come un rischio, meno avremo dati e idee chiare. E allora vinceranno i tecnofobi. 

 

 

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