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chatbot a scuola

Addio saggio breve, arriva l'intelligenza artificiale

Pietro Minto

Il mattoncino con cui abbiamo costruito le fondamenta della nostra formazione è la vittima più facile delle AI. Che però generano temi da 7 al massimo. La creatività insostituibile e le possibili soluzioni

All’improvviso, non c’erano più errori grammaticali. Brian Klaas, docente di Global Politics allo University College di Londra, ha raccontato di aver notato che qualcosa non andava, qualche mese fa, mentre correggeva un’ottantina di saggi brevi scritti dai suoi studenti. Ce n’erano di pessimi, di banali e di ben riusciti, come al solito; quello che mancava erano gli errori. Le castronerie, i refusi, le virgole fuori posto. Anche il più tedioso lavoro dello studente meno dotato era – almeno dal punto di vista ortografico e grammaticale – ineccepibile.

Una scoperta simile può scaturire due reazioni diverse. L’ingenuo potrebbe dirsi soddisfatto, lodare la classe per la padronanza della lingua, e magari darsi una pacca sulle spalle per l’ottimo lavoro fatto nell’insegnamento; Klaas capì invece che ad aver estirpato gli erroracci da quegli scritti era stato ChatGPT. O, più in generale, i chatbot come ChatGPT, modelli linguistici (o Llm) che ormai sono onnipresenti nelle classi delle scuole superiori e delle università, per non parlare degli uffici.

Sarebbe interessante, ai fini di questo articolo e non solo, sapere quale percentuale di tesi di laurea presentate negli ultimi due anni in tutto il mondo sia stata scritta, rivista, ispirata da un’intelligenza artificiale. Forse, però, è meglio non saperlo: la risposta potrebbe avvilirci e farci gridare alla Fine della Civiltà, quando invece stiamo semplicemente assistendo alla ben più moderata Fine del Saggio breve e della tesi come strumento di giudizio degli studenti.

E questo è un problema, perché la cosiddetta “tesina” ha rappresentato per decenni, se non secoli, lo strumento prediletto per misurare e testare le capacità degli studenti. Un output che prende forme e nomi diversi a seconda dell’età e del contesto in cui ci si ritrova: si comincia alle elementari con le ricerche da fare a casa; si prosegue con i temi e i lavori più corposi; per arrivare alla tesina della maturità, prologo della tesi vera e propria, quella di laurea. Chi prosegue oltre, incontrerà gli articoli e i paper e altri scritti simili, di ricerca e accademici, ma pur sempre pronipoti della tesina originaria.

Basterebbe questo excursus per concludere quanto sia bizzarro il fatto che, in Italia e non solo, buona parte del sistema scolastico si erga su questo lavoro di ricerca, analisi e scrittura, a discapito di tutto il resto. Come siamo finiti a dar loro così tanto peso? E’ una decisione che, in questo mondo post-ChatGPT, finirà per risultare strana: “Ma come, non sapevano che chiunque poteva farsi scrivere un testo dall’AI?”. No che non lo sapevano. Perché, per molto tempo, non era possibile farlo. Si poteva copiare dall’enciclopedia o Wikipedia, saccheggiare qualche libro o plagiare altri autori; ma schiacciare un pulsante per ottenere diecimila battute sulla Lotaringia o la fotosintesi clorofilliana in pochi istanti, no.

Alla generazione che oggi si appresta ad andare alle elementari sembrerà impossibile, tra qualche anno, immaginare un mondo in cui i computer non comunicano in linguaggio naturale, ma così è stato fino a poco fa (novembre 2022, il lancio di ChatGPT). Certo, Siri, l’assistente vocale di Apple, ha ormai più di dieci anni ma il modello linguistico di grandi dimensioni rappresenta uno stravolgimento ben più grande di quelle vocine ancora incerte e poco utili. Gli Llm sono fin troppo efficaci (nonostante gli errori e le “allucinazioni”), troppo semplici da usare, troppo gratuiti per non mietere vittime facili. Una delle quali è stata proprio lei: la tesi o tesina; o, per dirla all’inglese, l’essay. Per molti anni, ha scritto Klaas nella sua newsletter “The Garden of Forking Paths”, “c’è stato un forte nesso tra la qualità del saggio e le conoscenze di base raccolte. Il risultato finale (la versione definitiva) era un buon indicatore dello scopo reale dell’esercizio (valutare il pensiero critico). Ciò non è più vero”.

Che fare quindi? Occorre cambiare tutto, dalle fondamenta. Qualunque sia il vostro parere sugli Llm, infatti, è indubbio che abbiano già avuto un impatto nello studio e nella formazione: finora ci siamo concentrati sui fattori negativi ma ne esistono anche di positivi: a un chatbot, ad esempio, puoi fare tutte le domande che vuoi; a un docente no (per motivi di tempo, soprattutto). 

Lo storico Benjamin Breen ha raccontato – sempre nella sua newsletter, “Res Obscura” – i diversi utilizzi degli Llm nel campo accademico, in particolare nello studio e analisi di manoscritti, che le AI possono scansionare e tradurre, ma anche interpretare con facilità. “Mi rendo conto”, ha scritto Breen, “che alcune persone, leggendo questo passaggio, probabilmente si staranno chiedendo: ‘perché scrivere un libro su William James e sulla storia della scienza, se il prossimo modello di OpenAI sarà probabilmente in grado di generarne automaticamente una versione decente?’”.

E’ una domanda che è più che lecito porsi, riflettendo sulle conseguenze che queste tecnologie possono avere nella cultura e nello studio. “La risposta è che credo davvero che la coscienza e la creatività umana siano sia un fine in sé, sia una fonte di valore in sé: non qualcosa che possa essere sostituito, così come nessun singolo ricercatore o scrittore, per quanto brillante, può rimpiazzare il lavoro di tutti gli altri, anche se meno abili o competenti”.

Anche perché, conclude Breen, gli Llm sono in qualche modo condannati – programmati –  a una genericità, anzi una “medietà”, che finirà sempre col premiare le capacità umane (o meglio, le capacità di alcuni umani particolarmente capaci). Ecco la prima lezione che possiamo trarre, quindi: evitare il medio. Quello, lasciamolo agli Llm. Facile a dirsi, certo. Su questa “medietà”, dopotutto, si basano la maggior parte dei lavori e degli studi, inevitabilmente. Bisogna quindi scavare ancora e arrivare alla nascita dell’accademia per come la conosciamo per capire come l’accademia stessa potrebbe essere scossa dall’ascesa delle AI.

Tutto ha inizio in Germania nell’Ottocento quando una serie di università pubbliche decisero di adottare un modello alternativo a quello medievale, in cui le università servivano perlopiù a sfornare avvocati, medici e professionisti vari. E se fosse esistita un’università finalizzata alla conoscenza pura, e non alla formazione degli studenti? Se già oggi ci sembra un’idea auspicabile, figuratevi alla fine del Settecento, quando alcuni centri tedeschi, come Göttingen, cominciarono a seguire questa strada. Invece delle classiche lecture – lezioni completamente top-down in cui gli studenti ascoltavano e basta – si proposero “seminari”, parola che è oggi croce e delizia di innumerevoli accademici, ma che rappresentava anche una piccola rivoluzione copernicana nell’approccio allo studio. Gli studenti dovevano ascoltare il professore ma erano anche tenuti a parlare, discutere. Intervenire.

Nel corso dell’Ottocento, i filosofi romantici diedero un ulteriore giro di vite all’istituzione universitaria. Johann Gottlieb Fichte, ad esempio, si fissò con un’idea all’epoca piuttosto balzana: gli studenti dovevano essere tenuti a scrivere le loro stesse dissertazioni, le quali dovevano consistere di lavori di ricerca originali, come racconta il sito “Asterisk Magazine” in un interessante articolo sull’argomento. Questo focus sulla scrittura e sulla creazione di nuove ricerche diede risultati innegabili, portando a scoperte e innovazioni che convinsero tutte le altre potenze europee a fare lo stesso. La ricerca universitaria per come la conosciamo era nata.

La trasformazione dell’essay nello strumento unico (o quasi) di misurazione degli studenti è avvenuta nei decenni successivi, anche per motivi di comodità e uniformità. Ancora oggi, l’esame di maturità consiste di tre prove: la seconda e la terza cambiano a seconda dei casi ma la prima prova rimane un monolite inscalfibile, l’ultimo retaggio di universalità in un mondo sempre più parcellizzato. Un tema. Scritto. Con diverse tracce da cui scegliere, tra cui c’è sempre almeno un… saggio breve. Ma pur sempre un tema scritto. Ci risiamo. L’ennesimo ritorno del formato, del mattoncino fondamentale con cui abbiamo costruito le fondamenta della nostra formazione, è anche, purtroppo, la vittima più facile delle AI, che con la loro “medietà” sono predisposte a generare un tema da sette in pochi secondi, prendendosi gioco di un sistema secolare.

Come uscirne? La risposta più comune prevede il ritorno, quantomeno parziale, all’oralità: insomma, interrogazioni per tutti, per ovviare agli Llm. E’ la risposta più facile, almeno in teoria, che però lascia aperte questioni legate al tempo, alla durata delle lezioni, e anche a certe capacità e skill che non possono essere misurate e testate in una prova orale. E poi: che ne è delle persone timide, che si sentono più a loro agio nello scritto? Vogliamo condannarle a un’interrogazione infinita? Un’altra proposta, più tecnica, prevede di rendere il prompt stesso (ovvero il comando che viene dato al Llm dall’utente) materia di studio e di voto. In futuro, secondo alcuni, gli insegnanti potrebbero accettare l’utilizzo di questi strumenti ma vorranno vedere come vengono usati dagli studenti. Esistono già docenti che accettano l’utilizzo degli Llm ma richiedono di poter leggere anche la chat tra studenti e AI, per capire che approccio hanno usato per migliorare l’output finale.

C’è infine una terza via, almeno tra le più discusse, e consiste nel reagire severamente alla diffusione di questi strumenti nelle aule, specie quando vengono utilizzati senza il permesso degli insegnanti, per copiare o farsi fare il compito dall’AI. Vietare le AI è facile soltanto a dirsi: questo tipo di provvedimento rischia di fare la fine dei “divieti di smartphone nelle scuole”, che in realtà esistono da tempo e non vengono rispettati.  E’ probabile che non esista una soluzione perfetta, valida per tutti. Ma una cosa è certa: l’epoca in cui il testo scritto poteva essere considerato un riflesso diretto delle capacità individuali è finita. Ora che la scrittura può essere delegata a una macchina, dovremo chiederci non solo cosa valutare, ma anche perché. E se continueremo a chiederlo soltanto agli studenti, o anche a noi stessi.

Ecco, quest’ultimo paragrafo me l’ha suggerito ChatGPT. Una risposta equilibrata e “media”, come spesso succede, che sappiamo già non sarà quella giusta: per risolvere questo problema, infatti, servono idee folli e innovative. E ormai sappiamo che quelle non le troveremo negli Llm.
 

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