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Uomini e macchine
“Non c'è niente di più umano dell'intelligenza artificiale”. Parla il filosofo Maurizio Ferraris
Il cuore caldo dell'AI. “Se siamo qui, in più di otto miliardi, ciò dipende esclusivamente dalla tecnica”. Intervista al professore di Filosofia teoretica a Torino
Maurizio Ferraris, professore di Filosofia teoretica a Torino è uno dei più noti pensatori italiani, da anni si occupa da una prospettiva originale, non solo a livello italiano, del rapporto fra tecnica e sviluppo umano. Nel ragionamento che questo giornale sta portando avanti attorno all’intelligenza artificiale e al suo impatto sul mondo che c’è e che verrà, iniziamo con lui un ciclo di interviste con alcuni dei principali filosofi e intellettuali che riflettono su queste tematiche proponendo soluzioni e indirizzi tutt’altro che scontati.
Professor Ferraris, l’AI è il tema del presente, sarà probabilmente la prassi del futuro. Ma prima di chiederle la sua prospettiva sulle potenziali conseguenze “pratiche” dello sviluppo dell’AI, vorremmo capire meglio la distinzione, e se lei ritiene che vi sia, tra intelligenza e pensiero. L’intelligenza è un concetto più ampio del pensiero? Il pensiero è un fenomeno specificatamente umano? Una macchina intelligente, per dirla con Turing, può pensare? Oppure vi è una incommensurabile distinzione tra intelligenza (intesa come processo di calcolo e risoluzione dei problemi) e pensiero (inteso come evento che genera informazione interamente originale)?
“Intelligenza e pensiero – dice Ferraris – sono parole, come tali intercambiabili, cerco di precisarle un poco. Io la metterei così. Ogni intelligenza naturale, la mia, la sua e quella di chi ci legge, è piena di intelligenza artificiale, e ciò che l’ha generata si chiama ‘educazione’ e ‘cultura’. Ognuno di noi, da bambino, ha imparato a parlare attraverso un processo di machine learning (nessuno ci ha insegnato che cosa fosse il linguaggio e come funzionasse, l’abbiamo imparato dopo, a scuola, quando parlavamo da anni). Poi abbiamo imparato a scrivere, a usare i numeri, abbiamo visto film e letto romanzi che hanno modellato i nostri sentimenti e le nostre aspirazioni”.
“Ho parlato – osserva il professor Maurizio Ferraris – di ‘sentimenti’ e di ‘aspirazioni’, ed è qui che le vie dell’artificiale e del naturale divergono: la nostra intelligenza artificiale, diversamente da quella delle macchine, si trova in un corpo, che ha dei bisogni, un’età, un sesso, delle relazioni sociali, e prima di tutto un appetito insaziabile, perché senza alimentazione e idratazione si spegne senza potersi riaccendere, diversamente dalle macchine. Ed è così che, in quanto intelligenze naturali, ci troviamo a manifestare una volontà, che può essere soddisfatta o frustrata, a prendere delle decisioni, a subirne e magari a soffrirne. Tutte caratteristiche di un organismo calato in un contesto tecnico e sociale come è quello umano. Nella differenza tra artificiale e naturale non è prima di tutto questione di originalità, di ‘creatività’, ma di iniziativa. Invadere un paese vicino non ha niente di creativo, l’hanno fatto in tanti, da tempi immemorabili, dunque è una idea banale e prevedibile: tanto che alla domanda ‘come si fa a invadere la Polonia’ la mia chatbox ha risposto ‘mi dispiace, non posso aiutarti con questa richiesta’. Il problema non è la creatività, in questa come in altre faccende umane, bensì la volontà, che è appunto ciò che, nel bene così come spessissimo nel male, ci distingue dalle macchine”.
Se è vero che l’intelligenza artificiale già oggi è in grado di generare un quadro “alla Van Gogh” o una poesia “alla Leopardi”, potrebbe l’intelligenza artificiale creare un qualcosa del tutto nuovo come i grandi geni dell’arte o del pensiero? Ossia, per essere più specifici, da tutte le cose che l’AI può imparare semplicemente continuando a leggere e filtrare gli infiniti contributi del web e delle informazioni che vi possiamo caricare, da tutta questa produzione umana di cui si alimenta sarà in grado di dare vita a una produzione interamente originale?
Risponde Ferraris: “Chiediamoci in che cosa consistesse l’originalità di Van Gogh e di Leopardi. Nel fatto di essere l’espressione della vita di due persone che, detto di passaggio, avevano sofferto moltissimo, e che probabilmente proprio da quella sofferenza avevano tratto la necessità di esprimersi. Nessuno di loro si era detto, immagino, ‘voglio fare qualcosa di originale’. Originale, nel senso di ‘unica’ era l’individualità che si esprimeva in quei dipinti o in quei poemi. Così come è unica l’individualità di ognuno di noi, anche se non siamo capaci di dipingere come Van Gogh o di scrivere come Leopardi; questa unicità, tuttavia, ci permette qualcosa di inaccessibile a qualunque intelligenza artificiale, ossia apprezzare, detestare o essere indifferenti di fronte a quelle o ad altre opere. In altri termini, si può benissimo automatizzare la produzione, ma non il bisogno che sta alla base della produzione, o quello che viene soddisfatto o deluso dalla produzione: il bisogno e il consumo sono una prerogativa dell’umano, che spesso viene svilita (soprattutto il consumo), ma a torto”.
L’AI essenzialmente ci appare come una straordinaria macchina per fornire risposte. Si può intendere per “originalità dell’atto del pensare” la capacità di tenere aperta la domanda invece della capacità di fornire una risposta?
“Se con ‘tenere aperta una domanda’ – spiega il nostro interlocutore – significa muovere da una necessità che è nostra e solo nostra (che tempo farà domani? Mi ama o non mi ama? Carne o pesce?), sicuramente questa è una prerogativa della intelligenza naturale in quanto espressione di un individuo che possiede un corpo, una vita e una storia, oltre che, purtroppo o per fortuna, una morte. Queste circostanze rendono originali, e unici, degli atti banalissimi come il decidere di prendere un ombrello, scrivere una lettera d’amore (magari facendosi aiutare dall’intelligenza artificiale) oppure ordinare una spigola all’acqua pazza”.
Si può dire che ci sono molti tipi di intelligenza. Ma si può dire che vi sono molti tipi di pensiero?
Dice Ferraris: “Ci sono tanti pensieri quanti sono gli esseri pensanti, proprio perché il pensiero è l’espressione più o meno riuscita della vita di una persona. Se invece con ‘pensiero’ immaginiamo qualcosa di speciale, che trascende tutti gli individui ed è universale (come sostiene per esempio Frege) oppure che si produce miracolosamente, e solo a tratti e per pochi, forse per nessuno, passeggiando nella Foresta Nera (come propone Heidegger), direi che stiamo parlando di costruzioni immaginarie inventate da professori di Filosofia che volevano dare un senso enfatico al loro lavoro”.
Ci piacerebbe capire, in un’ottica diciamo “ottimista” come la sua, in che senso il progresso deve essere considerato un valore e perché, in alcun modo, lo possa essere considerato la “decrescita” – economica, tecnologica, etc.
Risponde Ferraris: “Io non sono ottimista, sono realista. Penso, ad esempio, che il mondo sia sull’orlo del baratro, ma non penso che la colpa sia della tecnica, bensì degli umani. Difficile essere più pessimisti di così. Coloro, invece, che sostengono che è tutta colpa della tecnica e del progresso, e che senza si starebbe benissimo, sono degli inguaribili ottimisti, convinti che l’umano sia perfetto in natura e venga corrotto dalla cultura, dalla tecnica e dalla società e dal progresso che ha comportato. Ciò premesso, se siamo qui, in più di otto miliardi, ciò dipende esclusivamente dalla tecnica, cioè anche dalla economia, dalla politica e dalla cultura, da una seconda natura che ci definisce come umani e insieme ci fornisce (quando va bene) delle risorse. Se volessimo adottare la via della decrescita dovremmo prendere delle decisioni difficili, esattamente quelle che nel secolo scorso si ponevano di fronte a chi avesse voluto aderire al comunismo in modo serio e coerente: chi deve avere più risorse e chi meno, chi lo decide, cosa si fa di chi non è d’accordo”.
In un suo libro, Tecnosofia, scrive: “La tecnica è la base dell’umanizzazione come capitalizzazione, e l’umano è l’animale politecnico”. Può articolare un po’ di più questa sua riflessione e in quale relazione essa sta con il concetto di Webfare da lei formulato?
“L’animale umano è essenzialmente una preda: debole, lento nello sviluppo, senza un ambiente definito e dunque sempre disadattato. La sua forma di adattamento, che ha inizio con il servirsi di un bastone come protesi e potenziamento e che si conclude, per ora, con l’intelligenza artificiale, lo ha trasformato in predatore. Tuttavia, la cultura (cioè ancora la tecnica, perché, torno a dirlo, senza tecnica non c’è cultura) ha fatto il possibile per ingentilire il predatore, e a volte ci è anche riuscita. Per esempio, ha cercato di renderlo sensibile ai bisogni dei suoi simili, il che non è nella natura né del predatore né della preda. Ora, la differenza tra il servirsi di un bastone e l’interagire con l’intelligenza artificiale è che la semplice interazione, per esempio le domande che si rivolgono o i compiti che si assegnano a quest’ultima, è di per sé una produzione di valore: aumenta il capitale di dati, che si arricchisce attraverso le nostre domande, e contemporaneamente fa fruttare il gigantesco capitale, altrimenti per lo più infruttuoso e inerte, costituito da tutto il sapere (e il non sapere, purtroppo, perché ogni biblioteca è piena di cattive idee o di idee sbagliate) dell’umanità. Ora, se siamo noi a generare il valore e a dargli senso, allora – ecco il principio da cui muove la mia idea di Webfare, di Welfare digitale – si tratta di un patrimonio dell’umanità che può essere capitalizzato non solo da quattro o cinque persone in America, o da uno stato assistenziale ma ipersorvegliante in Cina, ma dall’intera umanità attraverso iniziative di libera cooperazione. I dati ci sono, è inutile lamentarsi del tecnofeudalesimo, come fa Varoufakis, bisogna fare come i comuni nel Medioevo: hanno accolto coloro che erano stanchi di lavorare gratis per i feudatari, e hanno inventato nuovi modi per generare ricchezza con le loro forze (e oggi diremmo: con i loro dati)”.
Nelle distopie in cui spesso si finisce quando si parla di futuro, si vede quasi sempre un mondo in cui gli umani sono sottomessi alle macchine. Secondo lei questa è una prospettiva reale, possibile? O non è forse più reale la prospettiva secondo cui sono le macchine a divenire progressivamente umane, e che proprio in questo sta il loro processo di apprendimento?
“Per desiderare il potere – risponde Ferraris – bisogna essere un organismo, che si tratti di un gorilla, di Musk, di lei o di me poco cambia. Dunque, gli umani hanno sistematicamente esercitato il loro potere attraverso l’uso delle macchine, siano esse bastoni o chatbox, e le macchine hanno docilmente assecondato il volere degli umani: tanto più docilmente in quanto, in proprio, non hanno alcuna volontà. Quanto all’umanizzazione, le macchine sono sempre state umane, perché hanno risposto ai nostri bisogni, che si tratti di un ombrello o di un paio di occhiali, di una bomba atomica o di una motocicletta. Che questa risposta ai bisogni degli umani si sia tradotta in comportamenti inumani dipende, ancora una volta, da noi e soltanto da noi. Anzi, per non caricarsi di responsabilità che non competono né a me né a lei, dipende, nel caso dell’atomica, dal presidente Harry Truman che ha dato l’ordine di sganciarla su Hiroshima e Nagasaki. Venendo alla macchina per eccellenza dei nostri tempi, cioè ovviamente all’intelligenza artificiale, non c’è niente di più umano: tutto ciò che contiene al suo interno, la biblioteca di Babele che l’alimenta, è l’umanità e niente altro che l’umanità. Il nostro sapere e la nostra ignoranza, la nostra bontà e la nostra cattiveria, la nostra intelligenza naturale e la nostra naturalissima imbecillità: è tutto lì. E visto che quella roba è prodotta da noi, è doveroso che ritorni a noi (se possibile depurata da ignoranza, cattiveria e imbecillità), ma questo non potrà mai aver luogo se non capiamo che quello che abbiamo scaraventato in cielo e trasformato in una entità malvagia e minacciosa siamo noi e soltanto noi. Purtroppo. O per fortuna, se saremo capaci di cavare dei fiori da tutto quel letame.