Cecilia Bonefeld-Dahl (screenshot)

L'intervista

"L'Europa sta perdendo la gara dell'innovazione". Parla la direttrice di Digital Europe

Giulia Casula

L'AI act è solo l'ultimo dei regolamenti a cui le imprese digitali europee devono adeguarsi. Ma gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle tecnologie sono anche altri. "Investire a queste condizioni sarà molto difficile", dice Cecilia Bonefeld-Dahl

"Ora le aziende dovranno spendere più in avvocati che in programmatori. Vogliamo che in Europa la gente possa investire sulle tecnologie, ma a queste condizioni sarà molto difficile”. Cecilia Bonefeld-Dahl, la direttrice di Digital Europe – associazione di categoria che rappresenta l’industria digitale in Europa – commenta così al Foglio il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale (AI act) recentemente approvato da Bruxelles. L’intesa raggiunta, dopo 36 ore di negoziati, si è concentrata sulla definizione delle regole per gestire ChatGpt e simili, ma secondo chi l'innovazione la produce il risultato è quello di complicare la matassa. Certo, meglio avere un regolamento comunitario che ventisette diversi sistemi di norme, ma "occorre implementarle come se fossimo un unico grande paese e non ventisette", dice la direttrice. Soprattutto perché le condizioni di partenza non appaiono favorevoli e la strategia europea per sostenere l'innovazione digitale non sembra efficace. "Una startup che voglia investire nell’IA dovrà prima confrontarsi con le autorità stabilite dal regolamento, poi con quelle previste dal Data Act, e ancora con i Garanti per la protezione dei dati personali: ma così si finisce per rinunciare a parlare con gli stakeholders. Inoltre i costi di adeguamento normativo sono piuttosto pesanti. Una pmi con 50 dipendenti dovrà trovare 300.000 euro per implementare il regolamento. Chi ha 300 mila euro?”, chiede Cecilia Bonefeld-Dahl.

 

Il rischio è quello di porre ulteriori freni nella corsa all’innovazione in cui l’Unione europea sta già perdendo terreno. Un problema di lunga data, secondo la direttrice di Digital Europe – “Va avanti da trent’anni”, ci dice – che non riguarda solo l’intelligenza artificiale. “Qui non sono rimaste molte aziende IT. Se includiamo anche il Regno Unito, l’Europa ha circa l'8 per cento degli unicorni mondiali aziende innovative che raggiungono una valutazione di mercato di un miliardo di dollari , il che è decisamente troppo poco. Il nostro continente dovrebbe averne circa il 25-30 per cento. Non ci siamo nemmeno vicini.” Le ragioni dietro questo ritardo sono diverse, in primis l’assenza di un unico mercato digitale europeo. “Un'azienda tech ha bisogno di capitali, competenze e un grande mercato comune per crescere, mentre le nostre pmi si ritrovano a fare affari con un partner per volta, perché l’idea di avere un unico mercato europeo senza confini nazionali non è ancora una realtà”, spiega. 

 

“Se un’impresa italiana vuole crescere in Europa la strada è molto complessa”. Sistemi fiscali diversi, impedimenti burocratici, lunghi tempi legali di attesa, competenze digitali scarse, carenza di forza lavoro specializzata sono alcuni degli ostacoli alla crescita delle aziende tech europee. Le quali spesso e volentieri si trovano costrette a lasciare il vecchio continente e a spostare la loro attività altrove, dove le condizioni di sviluppo risultano più vantaggiose. “Negli ultimi 20 anni abbiamo perso molte aziende tecnologiche e non ne sono state create di nuove. Oggi due terzi delle nostre start-up si trasferiscono negli Stati Uniti prima di diventare unicorni”, osserva la direttrice, che insiste sulla necessità di invertire questa tendenza e incoraggiare la nascita di grandi players europei. Come? I primi passi potrebbero essere semplici: semplificare le procedure, adattare le regole a misura anche delle piccole e medie imprese e aumentare gli investimenti. 

 

Così, Bruxelles fa le regole ma le tecnologie le producono gli altri. “Stiamo perdendo una gara”, dice Cecilia Bonefeld-Dahl, che auspica una maggiore cooperazione degli stati membri e suggerisce di guardare all’esempio spagnolo. “Negli ultimi anni la Spagna è passata dalla diciassettesima posizione nell’Indice dell’economia e della società digitali (il parametro utilizzato per monitorare i progressi dei paesi Ue in termini di digitalizzazione) alla sesta”, dice la direttrice. “Questo perché Madrid durante la pandemia ha usato i soldi del recovery fund per aiutare le piccole imprese a digitalizzare il loro business”. L'Italia è ferma alla diciottesima posizione. Recentemente, in occasione del Comitato interministeriale per la transizione digitale, la premier Meloni ha annunciato che sarebbe in cantiera l'idea di stanziare un fondo specifico per sostenere le start up italiane del settore. "Un'iniziativa positiva che guardiamo con favore", commenta la direttrice.

  

I governi, insomma, possono fare la differenza. “È necessario che gli stati membri rimettano a posto le cose. Abbiamo bisogno che il settore pubblico sostenga le aziende europee a creare la nostra tecnologia. Altrimenti – avverte – molto presto l'Europa non avrà alcun tipo di innovazione tecnologica e sarà un disastro”.