Foto di Robin Glauser, via Unsplash 

il libro

Gli albori della Silicon Europe: a cominciare da un capannone milanese

Marco Bardazzi

L’ossessione di Virgilio Floriani per i “cosini”: i transistor. L’avvicinamento di Telettra a Olivetti e la nascita nel 1957 della Sgs, società destinata a entrare tra i leader assoluti dei semiconduttori. Un estratto

Pubblichiamo un estratto di “Silicon Europe. La grande avventura della microelettronica e di un’azienda italofrancese che fa girare il mondo” (Bur), un saggio di Marco Bardazzi, uscito nelle librerie il 15 novembre 2022 con l’introduzione di Mario Calabresi.

 

Le potenzialità che il transistor era in grado di fornire furono immediatamente chiare ai ricercatori e negli ambienti universitari. Ma tra i primi imprenditori in Europa a intuirle c’era un ingegnere elettrotecnico italiano che si era lanciato nel settore della telefonia, dove voleva portare un approccio innovativo che si basasse sull’elettronica e sulle tecniche della radio. Si chiamava Virgilio Floriani, proveniva da una famiglia di contadini del trevigiano, nelle Prealpi Venete, ed era stato il primo in casa – incoraggiato dal padre – a seguire un percorso di tipo accademico invece di dedicarsi alla terra.
Si era laureato al Politecnico di Torino nel 1929 e aveva maturato un’ampia esperienza nel settore delle trasmissioni radio anche durante il periodo bellico. Nel 1946 aveva messo a frutto la sua preparazione fondando a Milano un’azienda che fin dal nome, Telettra, voleva rappresentare una sintesi tra telefonia, elettronica e radio. In un paese ancora arretrato come l’Italia, la scarsa rete telefonica era basata su vecchie tecniche elettromeccaniche che Floriani era certo di poter integrare e sviluppare attingendo alle innovazioni del settore radiofonico e all’elettronica.

 

Telettra fu fin dal principio un’azienda votata alla ricerca e allo sviluppo di nuovi processi, in questo attingendo anche alla curiosità e all’apertura al mondo dell’innovazione che caratterizzava il suo fondatore. “Mio nonno teneva d’occhio tutto quello che avveniva in America”, racconta Federico Floriani, nipote di Virgilio, “e si documentava per esempio con il ‘National Geographic’, al quale aveva fatto un abbonamento che è durato per molti anni: ancora oggi a casa abbiamo più di mille copie della rivista, con il suo caratteristico bordo giallo. Riceveva anche le riviste dei Bell e si documentava sulle innovazioni tecnologiche”.
Quando i Bell Labs annunciarono il primo transistor, Floriani ne capì ben presto le potenzialità e quando Haggerty e la Texas Instruments nel 1954 dimostrarono cosa si poteva fare con i semiconduttori nel mondo radiofonico, intuì che quella era la strada per il futuro. Nell’autobiografia che scrisse nel 1980, Floriani tradiva ancora, a distanza di decenni, l’emozione con cui all’epoca aveva seguito gli sviluppi dell’elettronica americana. L’invenzione del transistor, scriveva, “è stato un passo di fondamentale importanza per il futuro dell’elettronica. Quell’aggeggio, grande come una capocchia di spillo, che se ben costruito non si usura mai, sostituisce con enormi vantaggi le valvole termoioniche, ingombranti, costose, di vita limitata, poco affidabili. Per le applicazioni in telefonia, ove le energie in gioco sono dell’ordine del milliwatt, il transistor trova applicazioni ideali. Passò qualche anno prima che gli scienziati di Bell riuscissero a capire e dominare le leggi e i fenomeni coinvolti con la nuova tecnologia, e quindi avviare i processi produzione. Io ero ansioso di poter mettere le mani su qualcuno di quei cosini”.

 

I “cosini” divennero un’ossessione per Floriani e un’opportunità di battere la concorrenza, visto che non sembravano ancora essere al centro dell’attenzione dell’industria telefonica europea. “A mio avviso era molto importante, forse vitale per la Telettra”, aggiungeva nella biografia, “poter disporre, avere il controllo di una fabbrica di transistor: visto che in Italia nessuno ci pensava, decisi che avremmo preso noi, Telettra, l’iniziativa”.
Floriani entrò in azione e nel 1955 scrisse alla Bell, con la quale già collaborava, per chiedere una licenza come quella che aveva ottenuto la Texas Instruments poco tempo prima. La risposta andò oltre le sue aspettative: oltre alla licenza, arrivò un invito ad andare a visitare i Bell Labs per potersi aggiornare direttamente sulle ricerche in corso. Floriani partì per gli Stati Uniti nel 1956 e raggiunse i celebri laboratori di Murray Hill per partecipare al primo simposio sulla tecnologia dei transistor e dei semiconduttori. “Eravamo un centinaio fra scienziati e imprenditori”, raccontò, “provenienti da tutti i paesi industrializzati del mondo: la mia modesta conoscenza della lingua inglese e la mia ignoranza di alcuni princìpi teorici della fisica moderna non mi permisero di trarre molto profitto da quel simposio. Ma il mio entusiasmo non ne risentì: mi resi conto che il mio compito si doveva limitare a fare l’imprenditore e tornato a Milano mi misi alla ricerca di un gruppo di fisici che disponessero delle conoscenze di base per poter affrontare il problema”. 

 

Fu così che nacque un’iniziativa coraggiosa e pionieristica, tra le prime che sarebbero andate a costituire la Silicon Europe. Floriani allestì nel 1956 un laboratorio interamente dedicato alla produzione di semiconduttori in un capannone in via Farneti a Milano, nei pressi di piazzale Loreto, e con i brevetti ottenuti dalla Western Electric americana e dai Laboratori Bell, avviò una produzione di diodi e transistor inizialmente al germanio e poi al silicio. La portata dell’attività che aveva messo in piedi emerge dalle pagine del “Bollettino tecnico d’informazione” di Telettra del 7 aprile 1957, dove si annunciava pubblicamente al resto dell’azienda l’esperimento in corso: “Abbiamo lavorato in silenzio da circa un anno e mezzo ed ora, in occasione della 35esima Fiera di Milano, presentiamo i primi prodotti”. (…)
Ben presto anche Floriani si rese conto che l’impresa era impegnativa e forse eccessiva per la sola Telettra. Riflessioni che aveva in corso proprio nei mesi in cui un’azienda assai più grande della sua si era accorta di quello che stava avvenendo nel laboratorio di via Farneti e voleva saperne di più. Era l’Olivetti, che a sua volta si era messa a caccia di semiconduttori. (…)

 

Il legame con l’America proseguì quando la guida dell’azienda fu presa dal figlio Adriano e le macchine per scrivere Olivetti divennero anche un punto di riferimento del design industriale internazionale. La Lettera 22 del 1950, disegnata da Marcello Nizzoli, finirà esposta al MoMa di New York e nel 1954 Adriano inaugurò sulla Fifth Avenue di Manhattan l’Olivetti Store, disegnato dallo studio milanese BBPR e arricchito da opere di Costantino Nivola, marito di Ruth Guggenheim e amico di Pollock, De Kooning, Steinberg, Le Corbusier. Un luogo rimasto nella storia dell’architettura, del design e del marketing anche per l’inedita modalità con cui venivano presentate le macchine da scrivere. Esposte su colonne come opere d’arte, ma anche accessibili a tutti: nello spazio tra la parete vetrata e il marciapiede era stata collocata una Lettera 22, chiunque poteva inserire un foglio bianco e lasciare un messaggio d’amore o un saluto scritto a macchina. “Olivetti fu il primo marchio iconico italiano che entrò davvero sul mercato americano”, spiega Luca Cottini, docente di italianistica presso la Villanova University della Pennsylvania e autore del sito e della popolare serie YouTube Italian Innovators. “Lo store sulla Fifth Avenue sarà molti anni dopo l’ispirazione per gli Apple Store e lo stile Olivetti fu un’influenza costante per Steve Jobs, favorita anche dal fatto che l’azienda italiana nel 1979 aveva aperto un centro di ricerca proprio a Cupertino, vicino alla Apple. Dai tempi della visita di Camillo a Stanford, c’è un legame continuo tra la Olivetti e gli Stati Uniti”.

 

Alla Olivetti avevano in mente l’America anche quando andarono a cercare Floriani, ma per un problema che non aveva a che fare con le macchine per scrivere. Da alcuni anni, senza troppa pubblicità, Adriano Olivetti stava cercando di fare un grande salto nel mondo dell’elettronica per mettersi al passo con le innovazioni americane. A incoraggiarlo era stato Enrico Fermi, il padre della fisica atomica, durante una visita nel 1949 al quartier generale di Ivrea. Per sondare le opportunità e cercare talenti, Adriano aveva mandato nel 1952 il fratello Dino ad aprire un laboratorio di ricerche elettroniche a New Canaan, nel Connecticut, e Dino aveva cominciato ad allacciare molti rapporti, compresi alcuni primi contatti con Fairchild. Quando Adriano si mise in cerca di uno scienziato a cui affidare il futuro dell’elettronica dell’Olivetti, gli arrivarono segnalazioni incrociate su una stessa persona. Sia i suoi referenti accademici italiani, sia Dino da New York gli parlarono di un giovane talento, un romano che lavorava in quel periodo negli Stati Uniti e aveva una biografia insolita, come rivelava il nome italocinese: si chiamava Mario Tchou. (…) Tchou da alcuni anni lavorava negli Stati Uniti e insegnava in un dipartimento della Columbia, quando Adriano Olivetti gli diede appuntamento nel 1954 nel negozio sulla Fifth Avenue appena inaugurato. Bastò un colloquio per convincere entrambi e per far nascere una formidabile coppia di innovatori.
Olivetti individuò nell’Università di Pisa il partner accademico con cui fare ricerca nel campo dell’elettronica e affidò a Tchou il compito di creare una squadra che avrebbe portato la società nel mondo dei calcolatori elettronici. Tchou scelse un team di dieci giovanissimi ricercatori e agli inizi del 1956 portò tutti con sé a lavorare in una villa a Barbaricina, un quartiere di Pisa. L’ingegnere romano era il leader e il più anziano di tutti e aveva solo trentadue anni.

 

Dopo poco più di un anno di lavoro, nel 1957 era pronto un prototipo funzionante, la cosiddetta “Macchina Zero”, battezzata Elea 9001. Era un risultato importante, uno dei calcolatori più avanzati prodotti fino a quel momento in Europa, ma era un risultato ottenuto utilizzando valvole e strutture di enormi dimensioni. Tchou annunciò al gruppo che avrebbero ridisegnato tutto da capo, ma stavolta utilizzando transistor. E in nome della vocazione di Olivetti al grande design, il computer andava ridisegnato anche avendo in mente l’estetica: un compito che venne affidato da Tchou a un giovanissimo architetto che avrebbe avuto un grande futuro, Ettore Sottsass.

 

Dal momento in cui era stata presa la decisione di puntare sui transistor, la Olivetti si era messa alla ricerca di possibili partner, non escludendo di realizzare anche in proprio un laboratorio dedicato ai semiconduttori. Adriano aveva attivato a questo scopo Dino negli Stati Uniti e l’altro fratello Roberto, capo della ricerca, in Italia. Ed era stato quest’ultimo a un certo punto a scoprire l’iniziativa di Virgilio Floriani. “Mentre riflettevo sui problemi che la nuova avventura riversava sulle mie già sovraccariche spalle”, scriverà Floriani nella sua autobiografia, “ricevetti la visita di due giovani interessati a conoscere i nostri programmi. Erano il dottor Roberto Olivetti e l’ingegner Mario Tchou della società Olivetti, che da poco avevano costituito a Pisa una divisione di calcolatrici elettroniche. A farla breve, dopo una mia visita a Ivrea dove conobbi il presidente, ingegner Adriano Olivetti, e i membri del consiglio di quella società, decidemmo di riunire le forze per dar vita a una nuova azienda con partecipazione paritaria Olivetti Telettra”. (…) A Floriani toccò anche la scelta del nome della nuova realtà imprenditoriale e la sua proposta fu subito accettata. Il 16 ottobre 1957 veniva ufficialmente costituita la Società generale semiconduttori, abbreviata in Sgs, che si presentò sul mercato come “la prima industria italiana espressamente creata per la ricerca, lo studio e la fabbricazione dei diodi e dei transistor”. Mettendo insieme le ricerche del gruppo di Barbaricina di Mario Tchou e i processi sviluppati nel laboratorio di Floriani, nasceva una realtà all’avanguardia tecnicoscientifica anche in Europa che aveva anche una nuova casa. Nell’annunciare con un comunicato la nascita di Sgs, infatti, Olivetti e Telettra svelarono qualcosa di più: “Il grande e modernissimo stabilimento della Società generale semiconduttori è ora in via di ultimazione; esso si trova lungo l’autostrada Milano-Bergamo in località Agrate Brianza. Verrà completato entro l’estate così da dare inizio alla produzione su scala industriale nel periodo immediatamente successivo”.

 

I transistor di Sgs accelerarono il lavoro del gruppo di Tchou e il 12 aprile 1959 l’Olivetti organizzò una presentazione alla Fiera di Milano che paralizzò per la quantità di folla l’intero quartiere, nonostante fosse domenica. Era nato Elea 9003, il “primo calcolatore elettronico italiano”. Un successo che però nascondeva le difficoltà di gestire una produzione complessa come quella dei semiconduttori, di cui c’era sempre più richiesta (solo l’Elea necessitava di 300.000 transistor). “La tecnologia dei semiconduttori”, raccontò Floriani “si rivelò nella pratica molto più complessa di quanto i miei entusiasmi avessero immaginato: di conseguenza, dopo un anno, considerammo l’opportunità di far entrare nella combinazione un partner americano che disponesse delle conoscenze che a noi mancavano”. La scelta cadde su Fairchild, che nel 1959 divenne socio di Olivetti e Telettra in Sgs, con una divisione di un terzo del capitale a testa. Olivetti e l’azienda californiana creata dagli “otto traditori” erano già in contatto da qualche tempo, in particolare si era aperto un canale tra Dino e Richard Hodgson, l’amministratore delegato di Fairchild, l’uomo dei numeri che aveva il compito di dare ordine alle intuizioni di Noyce, Moore e gli altri talenti del gruppo.

 

Fairchild era nata da soli due anni, dopo la fuga dall’azienda di Shockley, ma il mondo dei semiconduttori era in una crescita frenetica e velocissima, analoga a quelle che la Silicon Valley ha poi conosciuto più volte nei decenni successivi. Era già tempo per Fairchild di espandersi e l’Italia era apparsa subito come un inaspettato e sorprendente nuovo centro di sviluppo per il silicio. Bob Noyce cominciò a visitare spesso Milano (“Me lo ricordo da piccolo nella casa del nonno”, dice Federico Floriani, “veniva d’estate a trovarci”) e Richard Hodgson strinse una forte amicizia con Floriani e con gli Olivetti, proseguita con gli eredi fino a quando il manager americano morì nel 2000 in un incidente stradale alle Barbados.

 

Si era aperto un ponte tra la Silicon Valley e la Silicon Europe e Sgs sembrava nata sotto i migliori auspici e destinata a entrare tra i leader assoluti del mondo dei semiconduttori. Un altro ponte, con caratteristiche diverse, era stato lanciato negli stessi anni dalla Francia verso gli Stati Uniti, creando ulteriori condizioni per il futuro sviluppo della Silicon Europe.
Ma le cose negli anni Sessanta avrebbero preso una piega diversa. In Francia per scelte pubbliche, in Italia per un paio di morti improvvise.

Di più su questi argomenti: