L'ombra di Twitter

I repubblicani sono in guerra con le piattaforme nel nome della libertà d'espressione

Pietro Minto

La moderazione dei social è legittima, dice la Corte suprema. Ma lo scontro è politico. Da anni molti esponenti della destra trumpiana dichiarano di essere vittime di shadowbanning, per cui i loro contenuti sarebbero di fatto nascosti alla maggior parte degli utenti

Lo scorso maggio, lo stato del Texas ha passato una legge che rendeva illegale – per qualsiasi piattaforma di social media con più di cinquanta milioni di utenti mensili negli Stati Uniti – la rimozione di contenuti sulla base delle opinioni politiche che contenevano. La legge era stata fortemente voluta dai repubblicani texani come forma di difesa della libertà d’espressione online, la quale, secondo una parte consistente del partito, sarebbe soffocata da realtà quali Facebook, Google, Twitter (TikTok è un caso a parte: la proprietà cinese lo rende doppiamente sospetto).
 

“HB 20”, questo il nome della norma, è stata però bloccata dalla Corte suprema il primo giugno, dopo che due associazioni di categoria avevano sollecitato il suo intervento affinché ne verificasse la legittimità. E’ una vittoria, per quanto temporanea, per Big Tech, che sul filo della libertà d’espressione e la moderazione dei contenuti è sempre più in contrasto con parte della politica statunitense. 
La legge texana mirava infatti a rendere illegale “il blocco, la messa al bando, il deplaforming, la demonetizzazione, il de-boost, la restrizione, la mancata visibilità o la discriminazione” per contenuti social “politici”. Una lunga lista di divieti che alternava fenomeni reali ad alcune paranoie sempre più diffuse tra i repubblicani, che accusano i social media di oscurare le loro pagine e post. Da anni ormai molti esponenti della destra trumpiana dichiarano di essere vittime di shadowbanning (una forma “ombra”, nascosta, di bando dalla piattaforma), per cui i loro contenuti sarebbero di fatto nascosti alla maggior parte degli utenti. 
 

Le prime denunce di shadowbanning da parte repubblicana risalgono al 2018, quando Twitter sembrò aver smesso di mostrare i profili dei politici Jim Jordan, Mark Meadows e Matt Gaetz a chi li digitava nella barra di ricerca. Un bug informatico? Forse. Ma poco importa, il mito della mano invisibile (e liberal) di Twitter era nato, e faceva forse anche comodo ai trumpiani. Lo shadowbanning non è solo questo, ovviamente, e non colpisce solo la destra: nella primavera del 2020, TikTok fu accusata di nascondere contenuti inerenti all’omicidio di George Floyd e alle proteste di Black Lives Matter. 

Difficile da dimostrare, spesso indistinguibile da un innocuo bug, lo shadowbanning è diventato l’accusa perfetta per una parte politica disposta a sfruttarlo per tirare dentro la teoria del grande complotto ed esercitare pressioni sulle piattaforme digitali. Come spiegato da Gabriel Nicholas sull’Atlantic, infatti, le smentite dei giganti social al riguardo non possono nulla contro la malizia o il dubbio strisciante di molti (un americano su dieci ritiene di essere vittima di questo tipo di ban). 
 

Se fenomeni come il de-boosting (la riduzione della diffusione di una pagina) e lo shadowbanning sono difficilmente provabili, il deplatforming è invece una realtà più solida e critica per i repubblicani, per ovvi motivi. Tra le vittime più illustri di questa misura c’è stato Donald Trump, bandito da praticamente tutti i servizi social a causa del suo ruolo nell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021. E’ per questo che il tema della moderazione dei contenuti, altrimenti piuttosto tecnico e polveroso, va a toccare nervi sensibili della politica americana, arrivando al suo cuore: il primo emendamento della Costituzione americana.

Il primo emendamento è quello che garantisce libertà d’espressione, di stampa, di religione e assemblea a tutti i cittadini, con una sottile limitazione: le decisioni prese dalle imprese private. I social network, quindi, hanno il diritto costituzionale di limitare l’espressione altrui sulla base di politiche interne – le condizioni d’uso che tutti noi accettiamo prima di usare questi servizi.
 

Commentando la decisione della Corte suprema, Chris Marchese, consulente legale di NetChoice, una delle associazioni che hanno combattuto la legge HB 20, ha dichiarato: “La vittoria di oggi è una notizia positiva ma siamo solo a metà strada”. La Corte potrebbe doversi esprimere di nuovo sulla questione, visto che tre dei suoi giudici – tutti conservatori, guidati da Samuel Alito – hanno criticato la decisione finale in un atto “sorprendente e significante”, secondo il New York Times.

Potrebbe essere l’inizio di un lungo scontro, perché poche settimane fa la Corte d’Appello federale aveva ritenuto incostituzionale una simile norma approvata dallo stato della Florida, anch’esso a guida repubblicana. Tra dubbi, sospetti e teorie complottiste diventate mainstream, i repubblicani sembrano decisi a riprovarci: la guerra contro le piattaforme nel nome della libertà d’espressione è appena cominciata.

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