robot domestici stile star trek

Echo, Alexa e lo strapotere di Amazon: dal cloud all'intelligenza artificiale (passando per la sorveglianza)

Pietro Minto

Pubblichiamo un estratto da “Cos’è Amazon. Un viaggio sulle montagne russe” di Pietro Minto, ebook edito da Einaudi per la collana I Quanti

Un’azienda che funziona come una grande macchina può sembrare un’idea fantascientifica (scaffale: distopia). E non è un caso. Jeff Bezos, del resto, vuole fare come su Star Trek. Percorrendo la storia di Amazon, c’è un dettaglio che ricorre, facendosi sempre più presente e influente di anno in anno: la passione del CEO per la serie (e in generale per la fantascienza). Del suo razzo abbiamo già detto, ma c’è di più: ha un cane che si chiama Kamala, come un personaggio della serie (e l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti, Harris); una delle sue holding si chiama Zefram LLC, dal nome di un altro personaggio della saga, l’inventore del “motore di curvatura”; la “sua” Prime Video ha salvato The Expanse, una serie fantascientifica prodotta dal network SyFy perché il fondatore ne era tanto affezionato e pensa che potrebbe ispirare le nuove generazioni a esplorare il cosmo. 

“Un nerd. Che sorpresa!”, direte voi. Star Trek, però, non è solo un legame affettivo: anzi, è da sempre una reference di Bezos, sin dai primissimi giorni dell’azienda, quando ancora non si chiamava così. In una dimensione parallela questa storia si occupa del sito relentless.com. Era cosí che l’aspirante founder, negli anni Novanta, voleva chiamare amazon.com. Furono presi in considerazione anche altri nomi, come Cadabra Inc. e soprattutto makeitso.com. Se il primo richiamava il mondo dei sortilegi – anticipando l’illusorio senso di magico dell’azienda –, il secondo era una chiara citazione del capitano Picard, tra i protagonisti di, lo avete capito, Star Trek: “Make It So”, “Proceda”, era il suo tormentone. Ma “Make It So” è anche una frase perfettamente bezosiana, un ordine da capitano di lungo corso, un comando che include una risposta all’inevitabile risposta. “Ma non è possibile, non si può fare!”, “Make It So”. 

Nonostante lo sconfinato amore per Star Trek, però, makeitso.com non ce la fece a imporsi (oggi è un sito in costruzione, sembra una casa abbandonata). Sorte simile toccò a Cadabra, nome che al telefono veniva scambiato per cadaver. Relentless.com rimase invece in lizza per un po’, anche perché il nome indicava la qualità che Bezos voleva infondere nel suo progetto: relentless significa “implacabile”, “senza sosta”. Eccola, di nuovo, la macchina. Ma l’influenza della serie, come detto, va più in profondità. Basta ripescare il primissimo annuncio di lavoro pubblicato dall’azienda, il 21 agosto 1994, quando ancora si faceva chiamare Cadabra Inc.: a chiuderlo troviamo una citazione motivazionale rubata a uno dei padri della programmazione, Alan Kay: “E’ più facile inventare il futuro che prevederlo”. Bezos era ancora giovane, magrolino e pelato: doveva farne di strada. Ad esempio, doveva ancora capire che sarebbe stato più facile copiare il futuro, e copiarlo dalla sua serie preferita. Ecco come. 

Era il gennaio 2011. Eccitato dalla crescita di Amazon Web Service (il gigantesco servizio cloud dell’azienda) e dalla promettente tecnologia del riconoscimento vocale, Bezos scrisse a due suoi executive: “Dovremmo costruire un apparecchio da 20 dollari con il cervello completamente nella nuvola e completamente comandabile via voce”. Il team si mise al lavoro su un dispositivo senza fili, in grado di “parlare”, sì, ma soprattutto di trasmettere musica. Bezos non era d’accordo, non gli bastava: la musica avrebbe rappresentato “il 51 per cento del suo utilizzo”. Il resto sarebbe stato altro. 
Per aiutare il team a definire questo “altro”, Bezos parlava spesso del “computer di Star Trek”, lo straordinario computer di bordo della Enterprise in grado di rispondere a qualsiasi domanda. Con il cervello nella nuvola infinita di Amazon, il dispositivo doveva solo avere una cassa di buona qualità e un aspetto piacevole ma non troppo bizzarro, in modo da uniformarsi alle case di milioni di persone. Il risultato finale, Amazon Echo, è stato il primo di un’ampia gamma di dispositivi rivoluzionari, che costano dalla trentina di euro in su, e hanno portato Amazon a dominare il nascente settore dello internet-of-things.

Se il loro cuore è nel cloud, però, la voce e l’anima dell’operazione è Alexa, l’assistente vocale il cui nome rimanda alla Biblioteca di Alessandria (e che ha cambiato la vita delle persone che si chiamano Alexa, facendone crollare la popolarità tra i nuovi nati). Alexa è, come Prime, un prodotto creato con una funzione precisa – per quanto futuristica – ed evolutosi in un catalogo di opzioni progettate per diventare centrali nella vita degli utenti. Come Prime, insomma, Echo dà dipendenza da Amazon a chi la usa. Di più: ne rappresenta in qualche modo il futuro, la perfetta combinazione tra il sudore delle consegne a domicilio e l’astrazione digitale della nuvola di dati. Con Alexa, Amazon è riuscita a trasformare un’intelligenza artificiale in un prodotto di consumo di massa: le conseguenze di questa mossa sono ancora difficili da comprendere ma profondissime. 

Kate Crawford e Vladan Joler sono due studiosi autori di una “autonomia di una intelligenza artificiale” in cui hanno ricostruito il peso minerario, geologico e politico di un “semplice” dispositivo Echo. Nel loro studio analizzano il peso materiale di un aggeggio tecnologico di massa come Echo, pesandone l’impatto ambientale in termini di plastiche, chip, terre rare (minerali indispensabili alla costruzione di superconduttori). Ciascun Echo è un prodotto semplice, quasi cheap, se lo strappiamo alla nuvola di Amazon, dove ha sede la sua potentissima intelligenza artificiale. Un monolite cilindrico, un sensore, un microfono: tutto qui. Considerarla l’ennesima cassa bluetooth per la casa sarebbe riduttivo quanto definire Amazon “un negozio online”. Echo è una presenza discreta. Silenzioso, ma in ascolto. Gentile quanto la sua voce Alexa, ma risoluto, progettato per vendere. Ricorda un po’ la copertina di Presence, album dei Led Zeppelin del 1976, realizzata dal celebre studio Hipgnosis, che mostra una famigliuola benestante e sorridente nei pressi di un molo pieno di barche di lusso, seduta a tavola, attorno a uno strano oggetto nero, la “presenza”. All’epoca nessuno aveva pensato di risvegliarla sussurrando “Alexa”. 

Storia del rock a parte, Amazon Echo segna un punto di svolta che facciamo forse ancora fatica ad apprezzare appieno: ora Amazon – e la sua nuvola invisibile – è al centro di tutto, e tutto gira attorno ad Amazon. I prodotti, la merce, i servizi, i minerali per i suoi dispositivi, ma anche gli utenti stessi. E non solo, perché per essere ascoltati e analizzati da Echo non serve essere utente del programma Prime: se esisti, e sei vicino a un dispositivo, sei ascoltato, e fai parte di Amazon. Dal data mining si passa piuttosto velocemente alle miniere africane, dove si estraggono minerali preziosi in condizioni atroci.  L’azienda ha appena iniziato la sua conquista dell’ambiente domestico: dopo Echo, Amazon ha, negli ultimi anni, lanciato una serie di prodotti per la casa, che includono smart display (Amazon Show e Amazon Glow), braccialetti elettronici per il fitness (Halo View), un mini-drone con cui pattugliare la propria abitazione mentre si è altrove (Always Home Cam), e Astro, ultimo arrivato, un robot dotato di un grande schermo e di ruote, in grado di seguire i suoi “padroni”, interagendo con loro tramite voce e immagini. Astro, una sorta di cagnolino con display, è il perfetto avatar di Amazon per le case dei suoi utenti, di cui sa già le abitudini d’acquisto e che può ora sorvegliare, letteralmente, grazie all’aspetto dolce e rassicurante di questi robottini. Dietro a tutti questi prodotti c’è ovviamente sempre lei: la grande nuvola di Aws, la sua intelligenza artificiale e il riconoscimento facciale. 

Dispositivi come questi trasformano il rapporto tra utenti, azienda e servizi, abbattendo barriere e confondendo le distinzioni, il tutto a vantaggio di Amazon. Secondo Crawford e Joler: “Quando si interagisce con un dispositivo Echo, o un’altra AI a comando vocale, si agisce in un modo che va al di là del comportamento attuato da un qualsiasi utente di un prodotto finito. È difficile posizionare gli utenti di un sistema AI in una singola categoria: vanno, piuttosto, considerati come casi ibridi. Così come la chimera greca era un animale mitologico in parte leone, capra, serpente e mostro, gli utenti di Echo sono simultaneamente consumatori, risorse, lavoratori e prodotti (…).” L’everything store include tutto, compresi i suoi stessi consumatori, ormai intrappolati da un’ambra che li rende utenti, clienti finali e produttori di dati per l’azienda. Il processo di assorbimento non riguarda solo la concorrenza, sia essa fatta di altre startup o una catena di librerie o un gigante come Google. Riguarda il mondo intero.

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