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dubbi e prospettive

L'intelligenza artificiale che Platone non si aspettava. Vinceranno gli algoritmi?

Massimo Adinolfi

Il filosofo rischia di finire in soffitta. Adesso ci sono le macchine, in grado di analizzare dati e statistiche, fornendo in certi contesti prestazioni superiori all’uomo. Non è più l’unico e il solo essere a detenere la conoscenza, e a farla funzionare

Non trovo modo migliore di metterla di così: Platone rischia di finire in soffitta. E non perché debba passare la mano ad Aristotele, o a qualche altra barba di filosofo. Ma perché va in soffitta la scena madre inventata da Platone, e dopo di allora calcata dall’intera umanità, occidentale e non. La scena è raccontata da Socrate nel Fedro. Il dio Theuth ha inventato le lettere dell’alfabeto e le ha mostrate al re di tutto l’Egitto, Thamus. Il quale, però, non la beve: Theuth è lì a vantare la sua invenzione, che renderà gli egiziani più sapienti e più atti a ricordare, poiché l’alfabeto è “la medicina della memoria e del sapere”, mentre Thamus pensa esattamente il contrario, che la scrittura alfabetica inventata dall’ingegnosissimo Theuth renderà gli egiziani ignoranti. Se tutto finisce nella scrittura, cosa resterà nell’anima? Dopo avere esposto l’antico racconto egizio, Socrate aggiunge, a rincalzo: è sbagliato pensare che la scrittura esprima un pensiero. Se la interroghi non risponde, non parla, né può difendersi da sé. Ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, conclude Socrate, e il padre siamo noi. Il padre è l’uomo: non lo scritto ma lo scrivente, colui che “fa parlare” ciò che è scritto.

 

Platone ha così fissato i ruoli, che hanno calzato comodamente per più di duemila anni: l’alfabeto è muto, la scrittura è muta e non ha nulla da dire; l’uomo, invece, parla e si esprime (anche) attraverso la scrittura.È l’uomo che detiene la chiave dei significati, è l’uomo che possiede la mente (o addirittura un’anima), è solo l’uomo che ha intelligenza di ciò che è scritto. Ora, finché in giro, oltre agli umani, ci sono solo piante e animali, non è difficile difendere il primato, anche se qualche difensore dell’intelligenza degli altri esseri viventi si trova sempre. Quanto agli dèi, è bastato farli il più possibile somiglianti agli uomini, poi ridurli al silenzio, renderli inutili e infine toglierli di mezzo. Ma ora che sono arrivate le macchine – e non semplicemente la macchina a vapore o il motore a scoppio, ma il computer, la rete e l’intelligenza artificiale –, la faccenda si è complicata parecchio.

 

Le macchine pensano? Non ce n’è alcun bisogno, perché fanno di meglio: funzionano. E forniscono prestazioni superiori all’uomo in una quantità di situazioni in cui noi metteremmo il pensiero, mentre loro si limitano (si fa per dire) a macinare dati. Miliardi di dati. Una macchina intelligente – qualunque cosa significhi “intelligenza” – può decidere se concedere un prestito, se autorizzare un trasferimento, se licenziare una persona, se bocciare una richiesta di asilo, se sganciare una bomba. Cambia tutto il mondo delle relazioni economiche, sociali, politiche, infine militari, una volta che al cuore dell’infrastruttura digitale delle nostre società siano collocati algoritmi “ciechi”, la cui mostruosa capacità di calcolo supera di gran lunga qualunque capacità di controllo da parte del “padre”, cioè dell’uomo. Algoritmi che funzionano non in base a una qualche sopraffina intelligenza della cosa, ma semplicemente in forza di potentissime elaborazioni statistiche. Amazon che mi consiglia quale libro leggere non sa mica dirmi perché mi fornisce quel consiglio: come la scrittura del dio Theuth, interrogato l’algoritmo non risponde. Però, qualunque cosa io pensi al riguardo, Amazon ci prende, mi dà il suggerimento giusto, senza alcuna assistenza “paterna”: lo si vede dal fatturato di Jeff Bezos. E questo Platone non se l’aspettava. Non, dico, che Bezos, novello Theuth, con la sua invenzione avrebbe fatto un sacco di soldi, ma che l’artificio inventato dal dio egizio avrebbe colonizzato l’anima greca, sottraendogli ambiti decisionali e di conoscenza in cui pensava di avere l’esclusiva.

 

E quattro. Quando Freud definì la psicanalisi la terza ferita narcisistica dell’umanità non poteva ancora sospettare che ce ne sarebbe stata una quarta. La prima fu con Copernico, l’uomo spodestato dal centro dell’universo; la seconda con Darwin, l’uomo imparentato con le scimmie e collocato nell’unico, grande albero della vita; con Freud, la scoperta dell’inconscio, l’uomo non più padrone in casa propria, attraversato da uno psichismo che sfugge alla presa della coscienza. Con gli algoritmi dell’IA l’uomo prende un’altra botta: non è più l’unico e il solo essere a detenere la conoscenza, e a farla funzionare.
Poiché le prime tre ferite inferte non l’hanno ammazzato, si può sperare che sopravviverà anche a questa. Nell’ultimo libro scritto con Eric Schmidt, il quasi centenario Henry Kissinger si fa venire qualche dubbio pure sulla sopravvivenza della specie, o perlomeno sugli scenari di potere e di guerra che sempre più dipenderanno (in parte già dipendono) da tecnologie intelligenti. Però, ce la faccia o no, è certo che l’uomo recherà nuove cicatrici. Dovrà ripensare se stesso, perché pezzi di sé si troveranno in mezzo alle cose, e pezzi di cose sempre più si comporteranno come un “Sé”. E rimettere insieme i pezzi non sarà una passeggiata fuori le mura. Come fu quella, ben più amabile, con l’ombra e un leggero venticello, che Socrate fece con l’amico Fedro, qualche millennio fa.
 

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