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il foglio del weekend

Bezos, il grande restauratore

Stefano Cingolani

È il distruttore che da Amazon è arrivato a rilanciare il Washington Post, senza paura della tecnologia 

Lo hanno chiamato Citizen Bezos, peggio del Citizen Kane di Orson Wells: molto, troppo scontato. Con un pizzico di fantasia in più è spuntato Lord Bezomort, ispirato al Voldemort di Harry Potter, appellativo lanciatogli contro dal comico Stephen Colbert nel suo show televisivo su Comedy Central. Le accuse non finiscono mai: prima ha assassinato le librerie, poi i negozi indipendenti; ha sfidato Apple nei telefonini, s’è seduto sulla nuvola digitale come un Giove high tech, ha superato pure l’atmosfera con il suo breve salto nello spazio, da vero stregone adesso cerca l’elisir di lunga vita.

In Italia viene considerato un padron delle ferriere: nei magazzini di Amazon si lavora 40 ore settimanali su tre turni per 1.300 euro al mese, denunciano i dipendenti scesi in sciopero per la prima volta nella primavera scorsa. Per i sindacati che stentano a mettere radici, visto il rapido turnover (in media non si resta più di un anno) il re dell’ecommerce è il Ford del nuovo millennio che ha cambiato (in peggio e con salari più bassi) l’organizzazione del lavoro. Per il giornalismo d’antan ha commesso un peccato mortale violando il santuario del Washington Post. E’ vero, i liberal dovrebbero essergli grati perché ha scagliato il giornale lancia in resta contro Donald Trump: “La democrazia muore nelle tenebre”, ha fatto scrivere, novello Tocqueville, sotto la testata quando The Donald s’è insediato alla Casa Bianca. Ma non c’è da fidarsi: non ha risparmiato nemmeno Barack Obama e ora se la prende con Joe Biden.  

 

Quando Jeff Bezos sborsò 250 milioni per comprare il Washington Post

 

Se ne possono dire tante e ce n’è sempre una di più, eppure la realtà mostra che Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, è un editore con i controfiocchi. Ha trasformato il fulgido, ma morente quotidiano della capitale in una testata nazionale che si batte testa a testa con il New York Times e il Wall Street Journal. A forza di scoop è tornato ad accaparrarsi premi Pulitzer (ben dieci negli ultimi otto anni), il giornale di carta non è stato fagocitato da quello online e l’edizione web non è stata surclassata da sfidanti di lusso come Huffington Post e Politico – i quali, nonostante la strenua resistenza, non hanno salvato la loro indipendenza: il primo è passato di mano in mano come una patata bollente, il secondo è finito nel gruppo tedesco Springer. La nuova Grande Idea è fare del “Post”, come viene chiamato negli States, uno strumento indispensabile per “i lettori globali”, così li definisce il piccolo grande Jeffrey nato Jorgensen il 12 gennaio 1964 e adottato da Miguel Bezos, un cubano emigrato in Nuovo Messico.  

Quando nel 1994, dopo un lungo apprendistato nell’informatica e poi nella finanza, lasciò la costa dell’est per Seattle, il suo fiuto negli affari e il talento di innovatore convinsero Jeff Bezos ad arare un campo inesplorato. L’idea di puntare sui libri si deve alla moglie McKenzie che scrive romanzi, ma una libreria online sembrava un business di nicchia finché non si è visto che tutti, anche nella più desolata prateria del West, potevano ricevere il volume preferito in tempi rapidi e con lo sconto sul prezzo di copertina. Bezos è stato aiutato da una lunga tradizione di vendite per corrispondenza e molti all’inizio pensavano che la formula potesse funzionare solo nelle immensità americane o nelle aree rurali, lontane dalle grandi città. Nel 1998 sbarcò in Francia con piglio da Rastignac  (“Adesso Parigi a noi due”) e gli intellò con il naso all’insù erano convinti che nella patria dei bookinistes mai nessuno avrebbe abboccato all’amo. Sicuro di sé, ipercinetico, con la zucca pelata, gli occhietti brillanti e la camicia aperta sempre senza cravatta, parlando a mitraglia e trascurando i tecnicismi da ingegnere laureato a Princeton, si sforzava di spiegare a noi giornalisti accorsi per intervistarlo con aria sufficiente, curiosi ma poco convinti, che avrebbe cambiato il paradigma dell’intera editoria. I più benevoli scrollavano la testa, i francesi arrotondavano le labbra a culo di gallina. Eppure Parigi è stata la prima città europea ad aprire una filiale di Amazon per vendere libri in lingua nazionale. L’editore Hachette ha incrociato subito le lame e la ministro della cultura Aurélie Filippetti è scesa in campo in difesa delle librerie indipendenti, ma il pubblico transalpino ha cominciato a ordinare classici e bestseller via internet o a scaricarli sui tablet senza più fermarsi. Ora Amazon sembra l’infinita biblioteca di Babele immaginata da Jorge Luis Borges; lo scrittore argentino amante di giochi linguistici avrebbe potuto chiamarla Babezos.

Partendo dalla piattaforma editoriale, Amazon ha cominciato ad offrire di tutto un po’. “Se la gente compra libri e si fida di darci il numero della carta di credito, perché non può acquistare qualsiasi altra cosa?”, diceva Bezos. Oggi vende in America trenta volte più di Walmart la maggiore catena di grandi magazzini, ed è il numero uno in Europa e in Giappone. Un abile mercante, dunque. Un distruttore, dicono i nemici, ma come non ammettere che ha salvato e rilanciato la lettura, mentre grazie a Kindle ha aperto la strada a un’altra dimensione checché ne dicano i cosiddetti educatori dei licei classici italiani, baluardi di una erudizione senza cultura, nemici giurati della didattica a distanza, anti Dadisti perché incapaci per lo più di resettare se stessi.

Su Bezos sono state scritte intere enciclopedie, ma è interessante sentire che ne pensa Donald, l’erede della famiglia Graham (pronipote di Eugene Meyer che nel 1933, lasciata la presidenza della Federal Reserve, aveva comprato il Post ridotto in bancarotta dalla grande crisi) che gli ha venduto il giornale. La madre, Katherine Meyer Graham, è stata una figura fantastica. Forte, determinata, corretta, la figlia del fondatore aveva svegliato un foglio addormentato. Il Watergate era stato nello stesso tempo la sua fortuna e la sua condanna perché, ammise sconsolata, “dopo una cosa così non puoi più essere un giornale normale, devi sempre cercare il massimo dei massimi”. Scomparsa lei, nel 2001, gli eredi sono stati sopraffatti dalla rivoluzione internet. In cerca di acquirenti, Donald aveva pensato che il giornale di famiglia avesse bisogno di qualcuno che lo facesse entrare nel nuovo mondo digitale. “Noi non avevamo le capacità tecnologiche mentre Amazon era un business cresciuto sui libri, sulla lettura”, ha raccontato nel 2018 alla Cnn per il documentario “L’età di Amazon”. “Quando nel 2013 conobbi Bezos capii quanto fosse interessato all’editoria e come conoscesse profondamente le abitudini dei lettori. Non solo, mi colpì la sua immensa conoscenza del futuro e dei nuovi mezzi per portare l’informazione alla gente. Lo trovai intelligente, sensibile e non pieno di sé, con uno sguardo lungo”. 
Non è stata Amazon a comprare il Post, ma Bezos, pagando 250 milioni di dollari di tasca propria. Ci ha pensato su un paio di mesi, prima di accettare: “Mi sono dovuto convincere che avevo qualcosa da portare al tavolo”, ha spiegato. “Alla fine ho deciso che ero in grado di offrire diverse cose: un po’ di ossigeno economico, alcune capacità nella tecnologia e internet, un punto di vista per pensare a lungo termine, la concentrazione sui lettori e la volontà di sperimentare”. 

Il Washington Post è al sicuro? “Jeff è il primo a dire di non avere la Risposta, con la maiuscola”, ammette Graham. Intanto ha portato il quotidiano in attivo, ha assunto giornalisti per l’edizione stampata e quella online. L’area digitale, anello più debole della catena, è diventata il perno attorno al quale ruota la ristrutturazione del giornale. Sono arrivati 25 ingegneri che aiutano i reporter a veicolare le storie nel mondo digitale che ha le sue regole e il suo linguaggio multimediale. Alla guida del reparto tecnologico è stato chiamato Shailesh Prakash (al Post dal 2011) che ha aperto un laboratorio per sviluppare software adeguati. Il sito è stato, naturalmente, ridisegnato sotto la sorveglianza di Bezos, il quale si collega ogni due settimane in videoconferenza e si vede una volta al mese a Washington o a Seattle con il gran capo della divisione informatica. “Ci parliamo da ingegnere a ingegnere chiamandoci per nome”, spiega. Nell’era B.B., Before Bezos, il Post continuava a vivere di eredità rimpiangendo il mega scoop del Watergate che costò a Richard Nixon la presidenza e ormai si respirava un’atmosfera mefitica. La crisi del 2008 aveva scosso le fondamenta finanziarie del giornale e il morale della redazione era sotto le scarpe. “La gente s’ammassava nella newsroom e passava il giorno a speculare su quanto tempo sarebbe trascorso prima di riempire gli scatoloni come quelli di Lehman Brothers”, ricorda un testimone di questa morte e trasfigurazione. 

“Noi abbiamo avuto tre grandi idee”,  racconta l’imprenditore, “alle quali siamo rimasti fedeli, e sono la ragione del nostro successo: mettere il cliente prima di tutto, innovare e avere pazienza. Se sostituisci la parola cliente con lettore, questo approccio può avere successo anche al Washington Post”. Secondo l’Economist, che gli ha dedicato una storia di copertina, Bezos ha introdotto a Wall Street la cultura del lungo periodo e ha tirato via la ruggine da una industria editoriale al collasso, dominata già da pochi grandi gruppi i quali a loro volta si stavano integrando con gli altri media, la tv prima, internet poi (basti prendere Time-Warner-Aol o Disney), mentre Google e Facebook invadevano il campo dei mass media. Il prezzo dell’informazione è crollato molto rapidamente e la diffusione di notizie gratis ha reso molto più difficile la sopravvivenza di giornali come il Washington Post, che impiegano talenti e risorse massicce per trovare notizie le quali, riassunte e ridotte in pillole, circolano liberamente altrove. I tentativi di creare  barriere a pagamento sono piccole dighe di fronte all’alluvione. Ammette Bezos: “Come campi, in un ambiente di questo tipo? Anche se alzi un paywall, gli altri siti possono comunque riassumere e dare le notizie gratis”. La nuova sfida è proprio questa, trovare un modello che funzioni. 

Velocità e cambiamento sono le due parole chiave. Piuttosto che attardarsi su ciò che non funziona, Bezos raddoppia gli sforzi su quel che funziona, ha spiegato Prakesh in una intervista al sito Sparkr: “Il suo più grande impatto sul Post, a parte le nuove risorse finanziarie, è culturale, a cominciare dal concetto di sperimentazione, ci ha liberato spingendoci a sperimentare e provare. Non ci sono vacche sacre, quel che dobbiamo chiederci sempre è quanto siamo rapidi a cambiare”. 

Ha contribuito senza dubbio il successo di Amazon nel vendere libri e l’efficienza dell’intera sua struttura digitale, ma il resto è farina del Post e degli uomini che sono stati messi a guidare la trasformazione di un giornale vecchio stile in una potente macchina digitale. “Non siamo le teste di cuoio, non siamo un settore separato”, spiega Prakesh, “La parte tecnologica è integrata al corpo editoriale”. L’intelligenza artificiale non cannibalizza il giornalismo né uccide i giornalisti, viene usata per fare i titoli migliori o per scrivere articoli standard liberando tempo, energie e idee da dedicare a inchieste, analisi, approfondimenti. L’aumento dello staff dimostra che al Post l’innovazione non ha ridotto l’occupazione. “Il motivo principale per cui le aziende tecnologiche distruggono quelle tradizionali”, aggiunge Prakesh, “è che queste ultime hanno paura dell’innovazione e la rifiutano finché non arrivano sull’orlo della crisi”. 

La lezione è sempre la stessa. Non importa se si tratta di intrattenimento, di banche, commercio o qualsiasi altra attività, le imprese possono diventare eccellenti tecnologicamente restando di successo nel loro settore. Quel che accade al Washington Post è di ispirazione per tutti.

Dal primo giugno si è insediata Sally Buzbee, 56 anni, la prima direttrice donna. La scelta è maturata a primavera, ci sono voluti ben quattro pranzi per optare tra due candidati interni e due esterni di alto livello come Meredith Artley, che dirige la edizione digitale della Cnn, e la Buzbee, che ha guidato l’Associated Press, la più grande agenzia d’informazione globale. Bezos non ha deciso da solo, l’intera procedura è stata officiata dall’amministratore delegato Fred Ryan, ma il patron ovviamente ha avuto l’ultima parola. La Buzbee eredita un lungo periodo di successi: il giornale ha una audience complessiva passata da 20 a 100 milioni di visitatori unici al mese; la redazione conta ormai mille persone (ben 400 in più); gli abbonamenti digitali sono cresciuti da 35 mila a tre milioni, compensando la riduzione delle vendite per il giornale su carta (335 mila copie durante il weekend). Il quotidiano che si presentava come “la voce per e attorno a Washington” ora raccoglie il 95 per cento del traffico web fuori dalla capitale. Il 2020 è stato un anno record per la pubblicità digitale e il 2021 dovrebbe andare anche meglio. 

Il Post ha varcato i confini di Washington e degli States, il grande obiettivo è diventare davvero globale. Mentre otto anni fa la maggiore incognita era tecnologica oggi la sfida riguarda piuttosto i contenuti. “Sally Buzbee deve navigare in un ambiente politico-ideologico sovraccarico nel quale metà degli americani pensa che il Post sia lo strumento di un complotto dell’élite per sopraffare la democrazia e l’altra metà lo considera un vitale baluardo contro il totalitarismo”, ha scritto Andrew Beaujon sulla rivista Washingtonian. Può sembrare paradossale, ma questa battaglia culturale si deve proprio all’ingresso di un uomo d’affari, un ingegnere informatico, in apparenza un tecnocrate. La scelta di una professionista che ha passato la vita macinando notizie dalla sperduta Topeka, nel Kansas, al Cairo come corrispondente per il medio oriente, è una chiara indicazione sulla strada da imboccare o, meglio, da potenziare, perché la democrazia non muoia nel buio.

Una volta Bezos in televisione si è difeso dalle critiche tenendo fede al suo credo schumpeteriano: “Tranquilli, anche Amazon sarà superata e distrutta”. Poi ha aggiunto con sguardo da furetto: “Spero che non accada finché sarò vivo”.

 

I precedenti articoli della serie Editori, su Rupert Murdoch, Axel Springer, la famiglia Sulzberger, i Lagardèr e Shoriki Matsutaro

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