Spotify ha salvato la musica o l'ha rovinata per sempre?

Eugenio Cau

Un gruppo di ragazzotti svedesi ha dato una nuova vita all'industria discografica e l'ha trasformata in una questione di dati e algoritmi. Ma a che prezzo?

Milano. Era l’anno 2014 e l’industria della musica stava per morire. I ricavi del settore discografico nel mondo erano ai minimi storici: 14,3 miliardi di dollari. Appena 15 anni prima, nel 1999, l’industria aveva raggiunto il suo picco, sospinta dalle Spice Girls e dai Backstreet Boys (momento nostalgia anni Novanta), e il fatturato totale era stato di 27,8 miliardi di dollari, quasi tutto ottenuto grazie alle vendite dei cd. In pochi anni tutto era crollato, e la ragione del crollo era piuttosto semplice: internet. Perché comprare un cd quando potevi scaricartelo gratis e facilmente? O, per chi seguiva le vie legali: perché comprare un cd a 18 euro quando potevi scaricartelo facilmente a 9 euro e 99 da iTunes? L’industria era sull’orlo del collasso e tutti morivano di preoccupazione per la pirateria. Da qualche anno, tuttavia, un gruppo di ragazzotti svedesi aveva cominciato a far parlare di sé. Avevano un’idea folle, che non stava in piedi: promettevano che avrebbero risollevato l’industria e al tempo stesso eliminato la pirateria. Come? Facendo ascoltare la musica gratis, in streaming.

 

Il fondatore di Spotify Daniel Ek (Foto LaPresse)


  

Qualche settimana fa l’Ifpi, che è la federazione internazionale dei discografici, ha pubblicato il suo report annuale sullo stato di salute dell’industria, ed era tutto un autocomplimentarsi e un fremere di gioia. Dai 14 miliardi scarsi di fatturato nel 2014, in cinque anni di crescita continua le entrate sono arrivate a 19,1 miliardi di dollari. Non siamo tornati ai fasti delle Spice Girls, ma l’industria non sta più morendo, cresce stabilmente e tutte le previsioni dicono che continuerà a farlo. Il gran salvataggio dell’industria, ovviamente, è merito di Daniel Ek e dei suoi colleghi svedesi di Spotify, la più grande compagnia di streaming musicale al mondo, che ha sviluppato un modello di fare soldi con la musica interamente nuovo: al posto degli istinti dei discografici ci sono i dati, e al posto delle strategie degli agenti c’è l’algoritmo. Spotify (e i suoi emuli di Apple, Amazon e co.) ha trasformato la musica da una questione di intrattenimento a un affare tech. Ha salvato l’industria musicale, ma adesso c’è chi comincia a dire: e se l’algoritmo avesse ucciso la musica?

 

Tutti sanno a grandi linee come funziona Spotify: ha un primo modello di introiti che consente agli utenti di ascoltare la musica gratuitamente, intervallata da pubblicità, e un secondo modello che elimina la pubblicità e introduce altri vantaggi in cambio di un abbonamento a 10 dollari/euro al mese. Se questo modello ha ottenuto così successo non è soltanto grazie alla sua convenienza. È grazie al fatto che un uso sapiente degli algoritmi ha concesso a Spotify di ingegnerizzare sia la musica sia i gusti musicali dei suoi utenti, trasformando una questione di gusti in una questione di big data. Spotify ha cambiato per sempre il modo in cui le persone fruiscono la musica. Ha sancito la fine della forma-album (già uccisa dal download) e aperto il mercato delle playlist algoritmiche: sistemi che individuano i gusti musicali di ciascun utente con precisione sorprendente e li utilizzano per proporre nuove canzoni – contestualmente i suddetti gusti musicali vengono utilizzati anche per la personalizzazione degli annunci.

  

 

Non solo: Spotify ha cambiato in maniera definitiva anche l’industria della musica. Un esempio, riportato da un articolo sul Financial Times di qualche giorno fa: per contare come “ascoltata”, e dunque per essere inserita nel calcolo pubblicitario, una canzone deve rimanere in play per almeno 30 secondi. Questo ha portato negli ultimi anni alla creazione di canzoni brevissime, che danno tutto all’inizio e hanno perso il gusto per la costruzione lenta della melodia. Ma soprattutto, ciò che temono molti esperti è la musica diventi commodity: quando hai tutta la musica del mondo a portata di mano, servita e impacchettata da un algoritmo che ti conosce, non è che poi la musica finisce per perdere quel valore emozionale ed educativo che ha avuto per generazioni? Vent’anni fa, comprare un cd significava fare un investimento di soldi e di emozioni. Se il cd non piaceva, lo si ascoltava lo stesso, e si imparava. Oggi basta un clic per cambiare canzone, e se ci si annoia prima dei 30 secondi l’artista non riceve nemmeno un centesimo.

  

 

E dunque Spotify ha salvato la musica, ché senza gli alfieri dello streaming oggi le major discografiche sarebbero tutte morte. L’azienda ha appena raggiunto i 100 milioni di utenti paganti, e questa è ragione di ottimismo. Ma ha anche cambiato la musica, e soltanto i prossimi anni ci diranno se in peggio.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.