Tecniche per sopravvivere alla sorveglianza della tecnologia
Nella lotta tra l’uomo e l’algoritmo abbiamo un’ultima arma a disposizione: le bugie
Roma. Lo stato di sorveglianza tecnologico influenza le nostre vite molto più di quanto vogliamo immaginare. Se ancora non vi sentite pedinati, dovreste leggere l’inchiesta-monstre che ha pubblicato il New York Times un paio di giorni fa, in cui si racconta di come i telefoni cellulari siano diventati sofisticati sistemi di sorveglianza, e come certe app innocue controllino gli spostamenti più minuti, per poi rivendersi il fatto che preferiamo andare all’Esselunga piuttosto che al Carrefour. Mediamente, se possedete uno smartphone la vostra posizione viene registrata ogni 21 minuti, e si tratta di registrazioni molto precise.
Google ha una mappa con le posizioni di ciascun utente, tutti possono vedere la propria, e se fate zoom abbastanza vicino potrete vedere gli spostamenti tra una stanza e l’altra di casa vostra. I dati sono utilizzati e trasmessi in maniera anonima, ma se non lo fossero Google potrebbe notare che non andate in bagno abbastanza di frequente e proporvi la pubblicità di un diuretico: chi può garantire che non succederà?
La sorveglianza è anonimizzata e algoritmizzata, ma c’è. C’è una macchina che legge le vostre email per cercare pattern e proporvi inserzioni pubblicitarie rilevanti. I vostri post su Facebook sono scandagliati. Molte app conoscono la lista delle vostre chiamate telefoniche. Gli acquisti online sono tracciati. Molti conti in banca gratuiti e digitali sono ripagati con i vostri dati. I siti che visitate sono oggetto di continua sorveglianza. Perfino il luogo dello schermo dove lasciate riposare la freccetta del mouse è registrato.
C’è chi davanti a questi sistemi di sorveglianza gentile si sente più sicuro. Chi ritiene che dopotutto siano convenienti, alla fine è un modo per finanziare una gran massa di servizi gratuiti. Chi, infine, si sente limitato nella propria libertà. Ma di che libertà stiamo parlando? I nostri spostamenti sono pedinati, ma nessuno ci impedisce di andare dove vogliamo. Le nostre email sono lette, ma nessuno ci impedisce di scrivere quello che ci pare. La libertà che ci manca in questo mondo in cui l’algoritmo tutto sorveglia è la libertà di mentire.
Man mano che le tecnologie di localizzazione diventeranno socialmente più accettabili, e tutti acconsentiremo a farci pedinare dall’algoritmo per ragioni di sicurezza e ordine pubblico, i genitori ansiosi e i fidanzati sospettosi avranno molte soddisfazioni, ma dire una bugia sarà sempre più difficile. Sarà un mondo atroce. Per questo sta già nascendo una resistenza sotterranea, per non lasciarci strappare il diritto di raccontare frottole. Non perché ci piaccia mentire, ma perché le bugie sono l’unico modo per sfuggire alla sorveglianza.
Google ci conosce dalle ricerche che facciamo. Sa che se cerchiamo la parola “calzini nuovi”, tendenzialmente di quello abbiamo bisogno. Ma cosa succederebbe se il bisogno di calzini fosse offuscato da migliaia di altre ricerche generate in maniera casuale e Google fosse frastornato da ricerche su Paperino, Donald Trump e i viaggi intergalattici? C’è un programma, nemmeno troppo sofisticato, che fa esattamente questo: mente in continuazione a Google, per proteggere i nostri acquisti di biancheria.
Oppure: ci sono app che lavorano in background e, ogni volta che apriamo una pagina internet, senza che ce ne accorgiamo cliccano su tutte le pubblicità. Tutte. Lo scopo è evitare che l’algoritmo si faccia un’idea precisa di noi, perché lui è stato addestrato a cercare pattern e somiglianze, e viene spiazzato se qualcuno clicca su una pubblicità del Wwf e poco dopo su una dell’associazione dei cacciatori. La resistenza alla civiltà della sorveglianza digitale passa per le bugie, che sono ben diverse dalle fake news. Queste servono a ingannare gli esseri umani; quelle sono la nostra ultima arma per istupidire l’algoritmo.