Il problema con la tecnologia non è l'automa che ruba lavoro ma la propaganda della paura

Marco Bentivogli e Felicia Pelagalli

Anche in Germania l’adozione di tecnologie digitali ha aumentato l’occupazione. Nessuno ha più scuse per non iniziare a fare sul serio

Ancora una volta di fronte ai grandi processi di cambiamento il nostro paese è pronto, è pronto a non cambiare. Parole come trasformazione digitale e intelligenza artificiale sono diventate di moda, ripetute come un mantra; ma è un mantra che non porta a una riflessione, a un pensiero. Al contrario. Facendo leva su facili emozioni, si evocano scenari di robot che ci ruberanno il lavoro, nuove generazioni isolate e incapaci di comunicare (!), algoritmi che ci governeranno. Meglio rimanere nell’oggi, insoddisfacente, ma rassicurante. E’ più facile gestire una moda rispetto a una rivoluzione: la prima passa, la seconda ci chiede di cambiare con o senza consapevolezza. E allora si fa leva sulla merce più contrabbandata al mondo, la paura del futuro, a cui ricorre la destra populista, la sinistra ideologica e il giornalismo pigro che pubblica articoli e libri costruiti sui numeri ipotetici di Mc Kinsey come fossero Vangelo. Si dà la colpa alla tecnologia e agli algoritmi là dove invece c’è un vuoto di proposta di policy, di raccomandazioni e iniziative che diano un senso e la possibilità di superare limiti, cogliendo opportunità per le persone. Certo, siamo spesso ultimi nelle classifiche europee per uso della rete e competenze digitali; tendiamo a percepire la tecnologia e l’innovazione quasi come se fossero imposte: una novità “esterna” a cui dobbiamo adeguarci. Oppure, da “timorosi esitanti”, pensiamo che sia una nottata, come molte altre, che deve solo passare.

 

Le recenti classifiche del “Fdi Confidence Index” di At Kearney ci dicono che negli ultimi due anni l’Italia ha scalato ben 6 posizioni (passando dalla 16esima alla 10ima posizione) per la sua attrattività verso gli investitori stranieri. Risultato ottenuto grazie a piani come Industry 4.0 e alla parte di aziende (ancora minoritaria) che ha accettato la sfida del digitale. Il 52 per cento dell’export italiano nel 2017 è metalmeccanico ed è in larga parte di quel manifatturiero che vola più velocemente rispetto a prima della crisi. Mentre il sistema industriale che fatica, non investe e licenzia, è proprio quello lontano dall’innovazione. Il recente rapporto su “Digitalizzazione e futuro del lavoro” dell’istituto Zew di Mannheim mostra come ben la metà delle aziende tedesche abbia adottato le tecnologie digitali e come in queste aziende il numero dei posti di lavoro creati sia più alto e più qualificato rispetto ai posti di lavoro scomparsi.

 

Secondo l’Asian developement bank la stessa tendenza – maggiore uso di nuove tecnologie e saldo positivo dell’occupazione – si è registrata in oriente dal 2005 al 2015. E poi, non dimentichiamo che le tecnologie digitali sono state pensate e progettate dall’uomo. Siamo sempre lì a chiederci come le tecnologie digitali trasformeranno l’uomo e non ci interroghiamo su come la mente umana abbia avuto necessità di far evolvere la realtà. E’ la rivoluzione mentale degli umani che ha prodotto la rivoluzione digitale. E’ la fatica e la ripetitività di alcuni lavori che ha lasciato spazio all’integrazione tecnologica. Certo è una rivoluzione. Un radicale cambiamento delle categorie con cui guardiamo il mondo e interagiamo con esso. Ciò che era abituale e “vero”, non lo è più. Pensiamo alla rivoluzione che il digitale porta in alcune relazioni come: la relazione medico-paziente; la relazione insegnante-allievo; la relazione dirigente-collaboratore; la relazione Pa-cittadino; e quella operaio-macchina-lavoro. Sono tutti rapporti fondati su un’asimmetria, di conoscenza e di “potere”. E con il digitale questa asimmetria viene messa in discussione. Probabilmente è per questo che le resistenze maggiori sono proprio in quelle categorie che devono rivedere e riconsiderare la loro dimensione di “potere” rispetto all’altro. La trasformazione digitale implica il cambiamento delle culture su cui le organizzazioni basano il loro funzionamento. Non è facile, non è automatico, non si tratta semplicemente di imparare a utilizzare una nuova tecnologia, ma di costruire, con gli altri, nuove rappresentazioni del lavoro e non solo. “Sviluppo di competenze”. Sviluppo nel significato di togliere i viluppi, gli intrecci, i nodi, gli ostacoli (che sono per lo più ostacoli culturali). E cambiano le parole, i concetti, le rappresentazioni. Per esempio, ha ancora senso pensarsi come “consumatori”, un termine così tanto legato al concetto di bene economico? Consumare (ridurre al nulla un bene, un prodotto) era un concetto adatto a una società e a una produzione industriale e post-industriale, centrata sulle “cose”. La nostra epoca, come sottolinea Luciano Floridi nel suo ultimo lavoro “Il Verde e il Blu. Idee ingenue per migliorare la politica in una società matura dell’informazione”, è fondata sulla qualità dell’esperienza, pone al centro le relazioni. Il punto minimo di osservazione non è più l’individuo, ma la persona come centro di relazioni. Oltre che consumatori siamo diventati “produttori” di dati, nel nostro entrare, quotidiano, in rapporto con gli altri, con i contesti, con il mondo. Da questo punto di vista è vincente l’idea del “voto col portafoglio” che Fim-Cisl e Next considerano una nuova forma di lotta sindacale. Consumo come momento di scelta di prodotti di imprese ed ecosistemi a tracciabilità etica sostenibile: “Premio chi rispetta l’ambiente e la dignità dei lavoratori e così divento io il mercato e lo oriento verso il sistema economico di un mondo migliore”. E ancora, quanto dovremo ripensare al futuro del lavoro e al futuro del welfare, delle pensioni, dell’avere ancora come riferimento vite trascorse in uno stesso ufficio, in una stessa fabbrica, in uno stesso mestiere. Identità costruite in luoghi di lavoro, definite rispetto a un’appartenenza, a un contratto collettivo, all’essere lavoratore autonomo o subordinato. Abbiamo necessità di costruire, con decisione e speranza una visione (corale) di futuro, contro chi usa un futuro angosciante per consolidare un presente impaurito. Da anni la sinistra ha perso qualsiasi visione, del lavoro, del progresso, dell’uomo per abbandonarsi al revival o alle mode tecnologiche californiane ormai sbiadite. Come scrive Mauro Magatti in un recente articolo sul Corriere della Sera “non sapendo più pensare il futuro, non riusciamo più a sprigionare quelle energie vitali che fanno lo sviluppo”. Pensare il futuro significa rischiare, battere territori sconosciuti, sfidare fobie e ansie, puntare sulle proprie carte con coraggio e intraprendenza. E’ la sola terapia per un mondo malato di paura e minacciato da visioni apocalittiche. Ma innanzitutto dobbiamo pensare, e sentire, di poterlo #faresulserio.

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