(foto LaPresse)

La sindrome da troppa crescita che colpisce le startup cinesi

Eugenio Cau

Xiaomi è l’esempio più evidente di un malessere che sta cogliendo le compagnie tecnologiche della Cina

Roma. Quando, nel 2013, la compagnia cinese Xiaomi annunciò l’assunzione di Hugo Barra, tutti pensarono a un segno dei tempi e alla nuova invasione cinese che di lì a poco avrebbe conquistato l’industria della tecnologia in America. Barra era vicepresidente di Google con delega su Android, il sistema operativo mobile, e un uomo d’importanza strategica a Mountain View. La prima domanda che molti si fecero era: che cos’è Xiaomi? La compagnia tecnologica fondata nel 2010 da Lei Jun, che produce smartphone e servizi legati al mobile ma non solo, era quasi sconosciuta fuori dai circoli degli appassionati. A un anno dall’assunzione di Barra, nel 2014, Xiaomi sarebbe diventata la compagnia privata di maggior valore al mondo (la stima è di 46 miliardi di dollari, poi superati solo dai 66 di Uber) e avrebbe detenuto la più ampia quota di mercato dello sterminato e promettente mercato degli smartphone in Cina. Barra, nominato vicepresidente, supervisionava i progetti di espansione di Xiaomi a livello mondiale. Dai fasti del 2014, però, negli ultimi anni Xiaomi è entrata in una fase discendente da cui fatica a recuperare. Le sue quote nel mercato degli smartphone in Cina sono andate riducendosi, passando dal 15,9 per cento nel terzo trimestre del 2015 all’8,7 un anno dopo (nel frattempo le due principali marche di smartphone cinesi sono diventate le semisconosciute Oppo e Vivo, indice di quanto il ciclo continuo della disruption sia avanzato in Cina). Nel 2015, le vendite di smartphone non hanno raggiunto l’obiettivo aziendale (70 milioni di unità contro i 100 attesi) e secondo gli analisti gli incassi sono rimasti piatti.

All’inizio di quest’anno, per la prima volta dalla fondazione, Xiaomi ha rifiutato di pubblicare i suoi dati sulle vendite di smartphone nel 2016. Ieri mattina Hugo Barra ha annunciato in un post su Facebook che dopo tre anni e mezzo lascerà Xiaomi per tornare nella Silicon Valley. Parla di ragioni personali, dice che la vita in Cina ha richiesto sacrifici troppo onerosi al suo stile di vita e alla sua salute, e dice che presto inizierà una “nuova avventura” nella vecchia Valley. Ma intanto Xiaomi perde il suo principale portavoce internazionale, e sono molti a considerare la partenza di Barra come un cattivo segnale. Xiaomi è l’esempio più evidente di un malessere che sta cogliendo le compagnie tecnologiche cinesi, che come l’intera economia del paese sono cresciute a rotta di collo per poi trovarsi troppo spalmate su troppi fronti: Xiaomi è passata in due anni, dal 2012 al 2014, a quasi decuplicare il numero di smartphone venduti, un ritmo insostenibile per chiunque. E’ la sindrome da troppa crescita, che sta colpendo molte altre società cinesi. In una lettera ai dipendenti qualche giorno fa, Lei Jun ha scritto che “nei primi anni, abbiamo spinto avanti con troppa energia”, ed è facile capire il motivo: dal suo core business di smartphone e servizi mobile, Xiaomi è passata a vendere computer, braccialetti per lo sport, biciclette elettriche, lampadine smart, bilance connesse, cuociriso (!) intelligenti, droni e altro ancora. Xiaomi si è anche espansa a livello internazionale, nei mercati asiatici e indiano (in quest’ultimo ha ottenuto ricavi per un miliardo di dollari nell’ultimo anno). Insomma, la coperta è diventata troppo corta e l’azienda ha iniziato a risentirne.

Un altro esempio celebre di questa sindrome è LeEco, il cui ceo Jia Yueting ancora ad aprile definiva Apple come una società “obsoleta”, ma pochi mesi dopo, a dicembre, ammetteva che la sua compagnia si era estesa in troppi settori: nata come produttore di smartphone, LeEco ha un settore media, produce televisioni e decine di altri gadget, tra cui un’auto elettrica che vorrebbe rivaleggiare con Tesla. Con troppi progetti attivi, LeEco ha iniziato a mancare di fondi, e Jia Yueting ha dovuto vendere parte del suo impero per rifinanziarsi. Gli analisti che tengono d’occhio l’industria tecnologica in Cina dicono che casi come quello di Xiaomi o di LeEco sono errori di giovinezza di un ecosistema che finirà in ogni caso per eguagliare se non superare quello della Silicon Valley. Ma intanto la sindrome da troppa crescita è una buona metafora per tutta la Cina, la cui economia non a caso ha iniziato un nuovo regime di aumento moderato del pil. 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.