(foto LaPresse)

Da Uber a Facebook, perché nessuno espugna Pechino

Eugenio Cau
Uber esce in mala parata dal mercato cinese, unendosi a una lunga fila di compagnie tech americane abituate a conquistare nuovi territori e mercati con facilità e che invece hanno visto infrangersi la loro scalata a Pechino.

Roma. L’uscita tutt’altro che ingloriosa di Uber dal mercato cinese mostra che il regno di mezzo sta diventando un terreno d’affari sempre più ostile per le grandi compagnie tecnologiche americane e, in misura minore, per tutto il business occidentale. Dopo due anni circa di lotta senza quartiere per strappare il mercato cinese dal dominio quasi monopolistico del campione locale, Didi Chuxing, la start up californiana fondata da Travis Kalanick ieri ha annunciato la vendita al rivale di tutte le sue operazioni in Cina, dichiarandosi sconfitta e rinunciando alla penetrazione nel mercato cinese. Uber e i suoi azionisti, tra cui il motore di ricerca cinese Baidu, otterranno in cambio della cessione di Uber China il 20 per cento di Didi, che dopo il deal sarà valutata 35 miliardi di dollari (la quota di Uber sarà di circa il 17,7 per cento di Didi). La compagnia cinese, inoltre, farà un investimento da un miliardo di dollari in Uber International. Uber, che aveva speso oltre due miliardi di dollari in meno di due anni nel tentativo di accaparrarsi quote del mercato cinese, ottiene così nuovi denari e un asset importante nel promettente mercato cinese – la buonuscita è tutt’altro che scarsa. Ma perde una sfida che Kalanick aveva iniziato alla fine del 2013, con progetti pilota a Guangzhou e Shenzhen, e che il ceo in persona aveva elencato tra gli obiettivi irrinunciabili per il futuro della compagnia.

 

Per entrare nel mercato cinese, Uber aveva preparato le cose a puntino. Al contrario di molte compagnie occidentali che impiantano in Cina manager stranieri, Kalanick aveva assoldato dei team di dirigenti locali. Al contrario dell’atteggiamento abitualmente sprezzante che Uber adotta nei mercati in cui è presente, in Cina aveva cercato di oliare tutti i meccanismi, si era ingraziata il governo locale, aveva trovato in Baidu un partner cinese. Con i suoi infiniti viaggi a Pechino, Kalanick era diventato un habitué del circuito delle conferenze tech in Cina. Ma nessuna di queste accortezze esclusive è stata sufficiente per vincere la guerra di prezzi, sconti e miliardi bruciati che Uber ha ingaggiato con Didi. Entrambe le compagnie hanno perso miliardi nel tentativo di attirare autisti e clienti, ma alla fine Didi, che a sua volta è frutto della fusione nel 2015 tra due acerrimi rivali, si è dimostrata più dinamica e meglio addentellata alle consorterie e al sistema relazionale del capitalismo cinese (le forze dietro a Didi sono Tencent e Alibaba, i due principali giganti di internet in Cina, e da pochi mesi anche Apple). Soprattutto, Didi ha goduto della tendenza sempre più spiccata del governo di Pechino a favorire il campione locale.

 

Secondo alcuni resoconti il colpo di grazia a Uber l’ha dato proprio il governo la settimana scorsa, con una legge che, se da un lato legalizzava l’attività di Uber e Didi, dall’altro favoriva nettamente la compagnia cinese vietando l’offerta di corse sottocosto per attirare nuovi clienti, una tecnica molto usata da Uber per strappare al più diffuso Didi nuove quote di mercato. Seppure con una sconfitta più che onorevole e anzi lucrosa, Uber esce in mala parata dal mercato cinese, unendosi a una lunga fila di compagnie tech americane abituate a conquistare nuovi territori e mercati con facilità e che invece hanno visto infrangersi la loro scalata a Pechino. L’elenco è abbastanza impressionante. Google, Facebook, Twitter, eBay, Yahoo, Amazon e infine Uber sono state escluse dal mercato cinese o non sono mai riuscite a entrarvi, in alcuni casi per ragioni politiche e di controllo (Facebook, Google…), in altri perché cacciate da rivali più forti, come nel caso di eBay vs. Alibaba nel settore ecommerce.

 

Altre società tech americane sono invece riuscite a fare del mercato cinese una parte importante dei loro ricavi, ma anche loro hanno iniziato a risentire di un clima sempre più ostile per il grande business americano. Da un lato Apple, che conta sulla Cina per circa il 20 per cento dei suoi ricavi ma da almeno due trimestrali è trascinata giù proprio dai cattivi risultati sul mercato cinese, stretta tra competitor sempre più agguerriti e un sistema imprenditoriale e giudiziario che tende a favorirli. Dall’altro società come Microsoft, Cisco o Qualcomm, che in Cina hanno sempre avuto buona presa sul settore business e ora si vedono minacciate anche in questo caso da alternative locali, ma soprattutto da una legislazione sempre più restrittiva che, per esempio, di recente ha cercato di imporre il completo accesso delle autorità ai sistemi informatici sensibili usati in Cina, segreti industriali compresi. La smania di molte compagnie americane nei confronti del mercato cinese è grande. Il ceo di Facebook Mark Zuckerberg, complice la moglie, ha perfino imparato il mandarino e da anni si dedica a una metodica charme offensive. Ma il caso Uber insegna che anche per i più agguerriti disruptor Pechino potrebbe essere troppo difficile da espugnare.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.