American Bohème

Michele Masneri

Ma non è Puccini, che pure seduce sempre San Francisco. Questo è un Bilderberg dei boschi, club un po’ misterico di ricchi e potenti

Che “Bohème”, a San Francisco. Appena vista all’Opera House, con ottima Mimì interpretata da Erika Grimaldi, e anticipazioni molto americane e specifiche sul sito internet: “Best italian opera”, e “la vera ispirazione per il musical Rent”. Maschere molto professionali distribuiscono non il libretto ma una rivista con le solite foto patinate di donatori, l’immancabile dama benefattrice di San Francisco Dede Wilsey, chirurghi plastici di San José, la pubblicità della locale banca Wells Fargo pur chiacchieratissima ma main sponsor e filologica, già in circolazione infatti quando Puccini produceva la sua “Fanciulla del West”: opera a chilometri zero ambientata proprio da queste parti nella Corsa all’Oro con tutto un tema di risparmi da rubare, saloon e pepite, revolver e poker (“Mi son messo in cammino / attratto sol dal fascino dell’oro… E’ questo il solo che non m’ha ingannato. Or per un bacio tuo getto un tesoro!”, dice lo sceriffo); tema caldo che Puccini in un suo viaggio americano del 1907 carpisce immediatamente da una “Girl from the Golden West” mettendo sotto a lavorare i librettisti Civinini e Zangarini. Ma intanto a San Francisco grande attesa proprio per “Girls of the Golden West” cioè dramma originario però rivisitato dal compositore John Adams, esperto di remake (autore di un “Nixon in Cina”, e di una “Morte di Klinghoffer”), con libretto e regia di Peter Sellars che a ottobre qui esordirà, in coproduzione con la Fenice di Venezia; e “girl” subito diventa però “Girls”, dunque un’opera certamente corale di ragazze di successo ai tempi della corsa all’oro.

 

Una sera al teatro dell'opera: sale enormi, tre loggioni sinuosi come a Sanremo, leoni dorati. Applausi prima, dopo, durante

Speriamo che siano poi le storie delle imprenditrici femmine che fecero la storia della città. “Nei palazzi ultralussuosi di South Park, le vedove di uomini potenti servivano cene da diciassette portate su tavoli di teak alle loro ospiti in corsetti e crinoline”, scrive il giornalista Ben Tarnoff nel saggio “The Bohémians” (Penguin, 2014); come poi la meglio dama della città nel mitologico “San Francisco” del 1936, quello con Clark Gable, in cui l’anziana signora riveritissima confessa orgogliosa il suo passato da lavandaia, nella città in cui l’ascesa sociale è sempre stata molto sportiva, anche femminile. Prima delle polemiche odierne sul sessismo e i maltrattamenti siliconvallici sulle ragazze, tante “role model” femmine. Tipo Dede Wilsey, la dama cui è intestata parte del teatro, già figlia di un capo protocollo della Casa Bianca, famosa per aver raccolto 200 milioni di dollari per il nuovo museo della città; lo voleva fatto da Renzo Piano, ma il celebre archistar la trattò freddamente, e lei consegnò il bottino al più avveduto duo Herzog-De Meuron.

 

Però intanto questa “Bohème” sanfranciscana: teatro del 1927 con soffitto azzurrone, forma a vaso da notte, moquette a girali d’acanto a terra sofficissima uguale ai casinò di Las Vegas, mancanza di palchi ma invece tre loggioni sinuosi come a Sanremo (a fine spettacolo uno si mette a declamare, tipo Cavallo pazzo, “mi piaci perché sai come comportarti quando c’è l’orchestra, e sai come comportarti quando non c’è l’orchestra”). Nessuno ci fa caso, non si sa a chi parli.

 

Passati gli anni gloriosi della corsa all'oro,
si facevano molti denari, specie con l'indotto. L'invenzione
del bavarese
Levi Strauss

Sulle pareti, bugnati, leoni dorati tipo Metro Goldwin Mayer. Muri turchesi, questo colore così usato in città, dentro e fuori, fin nelle varianti più cupe del navy: si aspetta di vedere il fascio di luce su dalla cabina, è un cinema. Mentre nel basement, parquet invece a spina di pesce, e sale enormi e desolate con mega ristorante tipo mensa aziendale, o Shining, enorme, deserto, con seggioline di legno-plastica, che davvero non si sa chi ci possa andare. Accanto, i cessi, che per pruderie grandiosa sono nascosti da fitti tendaggi di velluto e sembrano lussuose polling station o funeral houses.

 

Applausi prima, dopo, durante: i cantanti lo sanno e stan fermi a prenderseli, il pubblico gode soprattutto per delle scemenze, li fa molto ridere il vecchio trombone con Musetta, tutti si eccitano soprattutto nelle scene al quartiere latino quando la folla urla le varie leccornie: aranci, datteri! marroni! ninnoli!torroni! panna montata! caramelle! la crostata! fringuelli! E su “latte di cocco!”, tradotto “coconut”, vien proprio giù il teatro.

 

Pubblico metà entusiasta e metà che fischia, tutti si alzano in piedi alla fine perché sono abituati così tipo notte degli Oscar, poi però, all’ultimo sipario, due giri veloci di applausi e via di corsa, peggio che al cinema. In cinque minuti la sala è vuota, alle dieci i ristoranti han già tutti chiuso, in trenta secondi tirano su il fondale e lo lasciano aperto, si vede dietro proprio tutti i meccanismi. Qui si fa così. L’uscita con portico marmoreo nuovo sembra l’Opera di Roma.

Anziani soprattutto elegantissimi, saranno gli ultimi “bohemians” di una città così ossessionata dal concetto. Pronipoti di quei “Bohémians” cioè i giornalisti e scrittori che nell’Ottocento illustrarono la città: si chiamavano così dal nom de plume che uno di questi, Bret Harte, aveva utilizzato per scrivere i suoi articoli sul quotidiano Era. Avevano baffoni, barbe e palandrane, come oggi i loro pronipoti hipster. Twain, oltre che grande battutaro, era anche un notorio produttore di fake news: da giovane giornalista inventò diverse storie, tra cui quella “dell’uomo pietrificato”, una mummia rinvenuta su un monte del Nevada, fece sensazione, ma era tutto falso). Harte, carattere diverso, timido poeta, voce flautata, era il suo editor.

Mentre in Italia si faceva l’unità d’Italia, a San Francisco erano passati gli anni gloriosi della corsa all’oro (il boom del ‘48 e del ‘49, da cui i “fortyniners”), si facevano molti denari; soprattutto con l’indotto. Un bavarese scaltro, Levi Strauss, brevettava una robusta tela per tende da cercatori d’oro, convertendola poi in pantaloni; gli Hearst ponevano le basi del loro impero di carta con gli introiti delle miniere. Fiorivano infatti i giornali, in questo angolo di Stati Uniti toccato di sghimbescio dalla Guerra civile.

E associazioni e club, in assenza di aristocrazie codificate. Soprattutto il “Bohemian”, il più esclusivo della città, intitolato a Twain e Harte ma subito scalato dagli startupper dell’epoca. Quando Oscar Wilde vi passò, nel suo celebre tour americano del 1882, notò come non si fosse mai visto “un numero così alto di bohémien così ben pasciuti, ben vestiti e dall’aria da uomini d’affari”.

 

Fiorivano i giornali,
e anche i club,
in assenza
di aristocrazie codificate. Il Bohemian è ancora lì, con le sue regole
di una volta

Il club si è poi trasformato nel più esclusivo d’America, i poeti quasi tutti estinti. Col motto “Weaving spiders come not here”, cioè “i ragni tessitori non vengono qui”, intendendo pensieri e affari (e così oggi praticamente ti tagliano la mano se vedono circolare un cellulare o un pezzo di carta, segno di una certa coda di paglia per un posto dove di affari se ne saranno fatti tanti). Oggi il Bohemian è ancora lì, con tutte le sue regole di una volta, accesso vietato alle signore, e ancor più vietato ai giornalisti (abbastanza paradossale viste le origini); però, una volta invitati, volentieri si sale lo scalone di Union Square, vicino all’altro club augusto della città, il Pacific Union, con sublimi attrezzature ginniche e piscina coperta. Qui invece – siam pur sempre bohemians – vasta quadreria di membri interni ed esterni, stemmi nobiliari con gran gufo simbolo del circolo, bar con bancone ligneo, odore nell’aria misto di Penhaligon’s, cuoio e naftalina, e tanti allegri signori, alcuni con bastone, altri in carrozzella, molti papillon, che scutrettolano felici con dei loro Martini in mano. Vasta raccolta di vignette incorniciate dei membri antichi artisti, piano che suona, non manca niente di tutti gli ammennicoli di questi ritrovi per gentiluomini. Una sera, invitati per la commemorazione d’un anziano socio, gran cena al primo piano, con orchestra e intrattenimento di altri membri che recitano delle scenette; cena a tavoli rotondi con tovaglie rosse, con la lampada elettrica sopra come proprio nei film americani, e molto alcol e cibo da business class, aragosta stopposa, maionese, kren, granchio, piatti tiepidi per cucine troppo lontane. E commensali tutti con misteriosi anelli dai simboli molto massonici: compassi e bussole, confraternite, alla sinistra un pezzo grosso di Berkeley, alla destra un luminare di Stanford. Cravatte che significano qualche associazione fondamentale a seconda della righina. Un commensale dice che si occupa della sua vigna a Sonoma da quattro generazioni, praticamente millenni, qui. Dopo il terzo bicchiere di rosso confessa però d’avere votato Trump, tra il costernato e il briccone, per vedere l’effetto che fa. Del resto il Bohemian a dispetto del nome ha solida tradizione repubblicana. Sono stati soci Nixon, Reagan, oggi Henry Kissinger e George Bush padre.

 

Ma è nella sua versione all’aperto che il Bohemian è soprattutto celebre e misterico. Recentemente immortalato nell’ottava puntata dell’ultima “House of Cards”, dove il povero Frank Underwood si trascina, in cerca di traffici d’influenze, con un siliconvallico che sbrocca per la noia e l’età media avanzata, e tanti magnati allegri anziani tra le sequoie e le querce secolari. Costretto a incappucciarsi sotto un enorme gufo ligneo, chi ha visto la puntata conferma che è proprio identico alla realtà del Bohemian Grove (versione appunto estiva, che proprio in questi giorni si svolge, nel bosco a nord di San Francisco di proprietà del club). Il Grove è stato accusato d’essere molto peggio del Bilderberg, qui sarebbe stato concepito il progetto Manhattan che portò alla creazione della bomba atomica, e secondo i più paranoici pure politiche monetarie e maltrattamenti di molti stati esteri. Forse perché il Grove unisce alla segretezza totale il setting boschivo, dunque ci si ritrova in tende, divorati da zanzare, magari con primari patrimoni nelle classifiche di Forbes e primi ministri esteri, a fare poi quello che gli americani d’ogni ceto amano di più: sbevazzare e mettersi una maschera.

 

Il telefono non prende, ma ci sono delle cabine funzionanti (“erano anni che non ne usavo una”, ci dice chi c’è stato); si mangia a quattro palmenti, si canta, ci sono “lectures” e finalmente si sta tra maschi. C’è poi il Grove Play, vero e proprio saggio di teatro scritto diretto e prodotto dagli iscritti che ogni anno mettono in scena, rigorosamente incappucciati; c’è soprattutto la “Cremation of Care”, una cremazione delle preoccupazioni che si fa al cospetto d’una statua sempre di gufo ma in cemento armato, alta dodici metri, con all’interno altoparlanti per diffondere il suo verso.

 

I “cares”, cioè le preoccupazioni, arrivano in barca con gondola nera sul lago artificiale, con fumi altrettanto artificiali (cerimonia costosissima, visto lo status dei soci), poi vengono bruciati con complicato rito al cospetto dell’uccellaccio (gli incappucciati di vari colori intonano un canto: “Oh tu, simbolo grande di ogni sapienza mortale, Gufo di Bohème, dacci consiglio!”, a quel punto il grande gufo dice delle cose tipo “l’unico modo per cremare i pensieri è con la Grande Lampada dell’Amicizia!”). Per molti anni la voce è stata quella di Walter Cronkite, storico ospite sebbene mai accettato come socio; la lista d’attesa è di trent’anni ed il celebre anchorman morì prima.

 

Il rito con falò
e travestimento
al cospetto del gufo,
la "cremazione
delle preoccupazioni", vista anche nell'ultima "House of Cards"

Colpisce sempre, oltre all’estro del travestimento, dell’America la bruciatura apotropaica, in terra californiana poi, notoriamente a rischio incendio, e in società in cui la pressione sociale e affaristica è molto alta. E’ chiaramente un modo importantissimo per loro, di sfuggire al logorio della vita moderna: e però sfuggono solo in parte, alla carnevalata con bruciatura viene poi applicata con nemesi mercantile la solita complicazione alla base del concetto di “nerd” e “geek”, costruendoci poi attorno un business model di successo. Così per esempio è nato Burning Man, festival del fantoccio bruciato nato pure qui a San Francisco in una spiaggia, e oggi diventato business milionario dove altri bohémien molto liquidi vanno nel deserto per tornare un po’ allo stato brado, bruciando soprattutto un fantoccione e consumando molte sostanze. All’inizio dormendo in tende, oggi soprattutto con aerei privati (mentre nei nostri paesi a basso reddito, però con capacità attoriali diffuse e stress molto minori, bruciare la strega è attività soprattutto di paese, e non viene mai presa troppo sul serio).

Qui invece serissimi, e se qualcuno parla alla stampa, il socio che ti ha portato viene immediatamente espulso. Pare che anche lord Michael Dobbs, creatore di “House of Cards”, sia stato molto vituperato per aver immortalato il Grove dopo un soggiorno qui boschivo. Gli ospiti più prestigiosi hanno diritto a una tenda singola; i paganti sborsano anche diecimila dollari per un weekend. Il Grove è poi confinante, sul fiume Russian River, a un altro raduno immortalato in una serie celebre, “Looking”. E’ il Lazy Bear, svago agostano per “orsi” nudisti, dunque con possibili cortocircuiti e sovrapposizioni interclassiste. “La religione del Grove è occidentale, la tendenza politica è centrodestra, con uno spruzzata di culto druidico”, scrisse su Spy Magazine nel 1989 Philip Weiss, uno dei pochi giornalisti che riuscì a introdursi. L’altro fu – con una microtelecamera – Alex Jones, che nel 2000 grazie alle riprese notturne e a una colonna sonora tipo Dario Argento diede vita poi al filone cospirazionista secondo cui al Grove si fanno pure sacrifici di bambini (mentre Nixon, più pragmatico, disse: ci son stato tante volte, “it’s the most faggy goddamned thing you could ever imagine”, “la più grande frociata che si possa immaginare”).