Direzione Matteo Renzi

Annalisa Chirico

Osservazioni a margine dell'assise Pd

Matteo Renzi non si dimette da se stesso. Dopo il tonfo delle politiche, il passo indietro del leader era inevitabile. Renzi lo compie secondo il suo stile: nella stessa giornata della fatidica Direzione Pd (paura) rilascia un’intervista al Corriere della Sera per far sapere che ‘il futuro torna’, eccome se torna; poi manda la sua e-news ‘con un sorriso doppio’ e posta su Instagram la foto con Paolo, un ragazzo malato di sla che gli ha scritto di non mollare. Negli stessi minuti al Nazareno si celebra il rito stanco di un partito alla ricerca di una bussola nel tempo attuale. Il vicesegretario, ora ‘reggente’, domani chissà, espone la sua relazione mentre la gran parte dei dirigenti compulsa il telefono, qualcuno sonnecchia, qualcuno guarda fisso nel vuoto. È il vuoto della leadership: che piaccia o meno (ai più non piace), Renzi lascia un Pd ridotto a bad company, votato al destino decadente dei colleghi di rue Solferino (il Partito socialista francese: ne avete memoria?). Il Pd come partito a vocazione maggioritaria, amalgama mal riuscito tra post comunisti e post democristiani, non è mai stato l’incubatore di una cultura politica radicalmente innovativa. Emmanuel Macron che si autodefinisce un ‘incidente della storia’ ha asfaltato i compagni transalpini con un movimento che ha raccolto a destra e a manca; l’uomo dell’establishment ha fiutato il suo momento e si è messo in gioco: con il 23% dei suffragi e un sistema maggioritario a doppio turno governa la Francia da monarca repubblicano. Renzi ha lanciato un’opa sul Pd e alla fine ne è stato letteralmente risucchiato. Risucchiato dalle diatribe interne, dalle lotte tra correnti, dalla paleontologia simbolica, ideale e umana di un corpaccione esausto che non è a suo agio nella contemporaneità. Qualcuno pensava davvero che nell’anno domini 2018 agitare lo spauracchio del fascismo o brandire lo ius soli come questione di vita o di morte avrebbe convinto gli elettori? Bastava uscire dai palazzi, dai ministeri, dalla moltitudine di sedi ovattate per respirare le urgenze, gli interessi, i bisogni rimasti orbi di rappresentanza. Così i voti fuoriusciti da un partito più impegnato ad azzannare il proprio leader che ad ascoltare la gente sono stati intercettati dai cialtroni per antonomasia, il M5S. E poi ci sono i tanti che hanno preferito restarsene a casa senza sensi di colpa. Dopo le elezioni europee del 2014, Renzi ha incarnato la speranza di un pezzo dell’Italia che esprime un voto pragmatico, estranea a ideologie e partiti, un’Italia operosa e attiva che aspira a vivere nel benessere e nella tranquillità. Dopo il successo delle europee Renzi avrebbe dovuto spiccare il voto e mettersi en marche sulle proprie gambe, ben più robuste di quelle decrepite di un partito fuori del tempo. Sappiamo com’è andata. Adesso il rottamatore che non intende rottamare se stesso ha di fronte a sé una sfida enorme dall’esito incerto. Potrebbe riuscire o fallire. Il sentiero da battere è tracciato, il leader, che tale resta per il suo popolo anche da non segretario, deve dosare coraggio e lucidità. La velocità, tratto distintivo del renzismo delle origini, non può tramutarsi in schiavitù dell’istante. In questa fase bisogna tenere a bada l’istinto e agire di testa. La ‘rimonta’ non passa da un tweet.

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