Foto LaPresse

Non è solo tirare frecce

Mauro Berruto

Due libri per capire che il tiro con l'arco è più di una disciplina sportiva

"Hai mai letto Lo Zen e il tiro con l’arco, di Eugene Herrigel?”. Questa domanda mi perseguita da quando sono diventato direttore tecnico delle Nazionali olimpiche di questa disciplina. D’altronde prima, quando allenavo la Nazionale di pallavolo, la domanda era: “Come ci si sente a sedere sulla panchina che fu di Julio Velasco?”. Ci si sente bene e, sì, ho letto Herrigel. L’ho letto da giovane, lo riletto da adulto e poi di nuovo pochi mesi fa quando sono stato incaricato. È uno libro che consiglio a tutti, ma (ormai l’avrete capito) in questa rubrica si cerca di stare fuori dal mainstream. Così per raccontare questo sport, anzi questa disciplina, scelgo due testi un po’ di nicchia.

 

Il primo si chiama: La via del tiro con l’arco. I testi segreti della scuola di Kyudō Heki (a cura di Paolo Villa, Il Cerchio, 2009). Per centinaia e centinaia di anni, a partire dal Medioevo giapponese, in estremo oriente si tentò di codificare la perfetta esecuzione di un gesto nato per la guerra, per la caccia, per questioni di sopravvivenza: scoccare (bene) una freccia. Un bel giorno una scuola, dopo aver raccolto tutte le informazioni esistenti, scrisse un manuale fatto di ventotto regole. Che incanto! Ventotto, non una di più, non una di meno. Qual è la posizione corretta dei piedi? Apri otto stecche del tuo ventaglio, mettilo a terra, eccola lì. L’impugnatura corretta dell’arco? Mutevole come il colore delle foglie d’acero in autunno di una poesia di Asukai Masaaki. La posizione giusta della testa? Quella in cui sentirai tirare un certo numero di capelli dietro la nuca. Insomma, se già è meravigliosa l’idea di racchiudere tutti i segreti di un sapere secolare in ventotto regole, a completamento arrivano dodici poesie. Un esempio? Ciascun tiratore ha il proprio carattere, la propria conformazione fisica, perciò non insegnate come se tutti fossero uguali. Voilà. Bisogna fare un certo sforzo intellettuale, ma la meraviglia è che tutta questa capacità narrativa, sigillata in ventotto regole più dodici poesie, sia al servizio dell’ideale di fare bene, il più vicino possibile alla perfezione, un gesto. Soprattutto se si tratta di un gesto finale: l’ultima freccia da scoccare verso un bersaglio, davanti agli occhi di un nemico, di un animale in lotta per la propria vita o di uno tifoso che segue una finale olimpica. Sì, perché nel tiro con l’arco non basta saper fare bene un gesto, bisogna saperlo fare quando conta e quando le condizioni intorno mutano: vento, luce, cuore che batte all’impazzata.

 

Ci viene in aiuto, allora, un altro manuale. Si tratta de Il cammino dell’arco di Paolo Coelho (La nave di Teseo, 2017). La lezione più importante arriva nelle prime pagine, quando Coelho racconta la storia di un forestiero che, dopo anni di perfezionamento, vuole mostrare la sua abilità a Tetsuya, arciere leggendario che si è ritirato a vita privata. Tetsuya è infastidito, ma alla fine acconsente. Il forestiero impugna allora il suo arco e infilza una ciliegia a quaranta metri di distanza. Il Maestro non dice una parola, si fa imprestare arco e freccia e si incammina, seguito dal forestiero, verso un ponte spaventosamente traballante sopra a una gola vertiginosa. Lì, oscillando paurosamente sul vuoto, scocca il suo dardo e centra una pesca a venti metri di distanza. “Tu hai fatto molto meglio di me – dice Tetsuya – rifallo qui, ora”. Il forestiero, bianco di paura, non riuscirà neppure a centrare l’albero. “Sei un ottimo tiratore quando le circostanze sono favorevoli, ma l’arciere non può scegliere il proprio campo di tiro. Ti consiglio di perseverare nei tuoi allenamenti e di prepararti anche per le situazioni sfavorevoli”.

 

Trasformare ispirazione in azione, ecco la grande lezione di questi due manuali che non insegnano, certamente, solo a tirare con l’arco.

Di più su questi argomenti: