Giovanni  Mosca è il secondo da sinistra, tra Zavoli e Coppi  

Scrittori in Giro

Il Giro d'Italia secondo Giovanni Mosca

Marco Pastonesi

Aveva il dono della leggerezza: ironizzava, stuzzicava, pungeva. Con eleganza. E precisione. Al Giro d’Italia trovò l’oro

Ricordi di strada, di corse, di corridori. Ricordi di bici, di ciclismo, di Giro. I ricordi di Giovanni Mosca (Giovannino Mosca o, più semplicemente, Mosca) nascono anche seguendo il Giro d’Italia. La prima volta nel 1937 per il settimanale satirico “Bertoldo”. Ci torna nel 1947 e poi nel 1958. Nel 1958 esordisce al Tour de France sostituendo Orio Vergani, ammalato, per il “Corriere della Sera”. Ancora al Giro, ancora al “Corriere”, nel 1960 e 1961. Sono, anche quelli, ricordi di scuola, la scuola della vita.

Mosca - il pronti via a Roma nel 1908, la volata finale a Milano nel 1983 – era tutto: giornalista e scrittore, traduttore e illustratore, autore teatrale e conduttore radiofonico, vignettista e umorista; ed era stato anche insegnante. Aveva il dono della leggerezza: ironizzava, stuzzicava, pungeva. Con eleganza. E precisione. Al Giro d’Italia trovò l’oro. Edizione 1960, seconda tappa, la Sorrento-Sorrento, ma su e giù per i 465 metri di altitudine del Monte Faito, 25 km a cronometro. Per il “Corriere della Sera” (il brano è ripreso anche in “Meo volava”, Iaccheri editore, del 2010): “Anquetil e Venturelli, partiti a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, vengono su leggeri e garbati, senza bava alla bocca. Sono gli unici – fra tutti i 140 corridori in gara – a non offendere il paesaggio. Anquetil non tanto sembra che prema con le mani sul manubrio, quanto che voglia tirarlo su e iniziare finalmente quel volo che da tanti anni ha nel cuore. Venturelli, il ciclista pecoraio, sembra abbia raccolto l’ultimo respiro di Coppi, e sale con una leggerezza e una eleganza mai possedute da nessun pastore. Credo che non tornerà mai più al suo gregge”.

Mosca dipinge, affresca, schizza: “La strada che, uscita da Sorrento, corre per qualche chilometro stretta fra due muri di vecchie pietre, si insinua poi, morbida e larga, tra fitte selve, tra chiari prati, fra boschi impazziti d’uccelli, poi un castello, poi una chiesa barocca, una torre, una strega che vende noci magiche, un signore in tuba seduto su una poltrona di velluto rosso, un nano pieno di sonagli, e, al sommo della salita, là dove da una parte si vede il golfo di Napoli e dall’altra quello di Salerno, un pescatore pigro, a torso nudo, i calzini rossi fino al polpaccio, e il berretto grigio, che pesca ora nell’uno ora nell’altro golfo con una canna lunga parecchi chilometri, e se un pesce abbocca ne sente il fremito dopo mezz’ora, e solo nelle giornate limpide riesce a vederne il guizzo argenteo; lui, il pescatore pigro della penisola sorrentina, mai sceso al mare e mai ci scenderà, pesca seduto sui rami dei fichi e dei castagni, canta canzoni di Modugno, guarda con meraviglia e disgusto i ciclisti che faticano e sbavano in mezzo ai fiori, e i soli che gli piacciano sono Venturelli e Anquetil, salgono senza ansimare, un fruscio di seta sull’asfalto, pallidi come fiori d’arancio…”.

Mosca è un altro Dottor Divago. Al Giro del 1961 (il pezzo, intitolato “Il Risorgimento in bicicletta” e pubblicato sul “Corriere”, è stato inserito nell’antologia “Scrittori della bicicletta”, curato da Nello Bertellini ed edito da Vallecchi nel 1985) se la gode fin dall’appello dei corridori, proprio come a scuola: “Accordi, Accorsi, Adorni, Anquetil, Arienti, Assirelli, Azzini… Zamboni, Zanchetta, Zoppas, Zorzi”. Divaga sulla geografia: “Ecco la fettuccia di Terracina. Non so se l’abbiate mai percorsa. Sono 50 chilometri dritti come una spada, l’asfalto battuto dal sole risplende come un acciaio. E’ una strada che addormenta”. Divaga sulla corsa: i romani “non mangiano tanto. Venite a vedere i piatti di questa comitiva che per salutare i corridori ha abbandonato la tavola apparecchiata all’ombra d’un gran noce e s’è precipitata sulla strada lasciandosi scivolare per l’erba del declivio. Venite a vedere. Una montagna di fave, una montagna di pane, un pezzetto di formaggio pecorino e neppure un litro a testa di quel vino dei Castelli che al secondo bicchiere già annebbia il cervello”.

Mosca tiene agli umili: “Sartore! Chi è questo Sartore? E’ il corridore scappato a Marino, che per un quarto d’ora ha sentito odor di vittoria. Poi, purtroppo, l’hanno raggiunto Giusti, Mealli, Garau, Conti ed Arienti, e il bel sogno è svanito. Sulla pista dello stadio Olimpico ha vinto Giusti, e Sartore s’è dovuto accontentare del quinto posto. Peccato”. Tiene agli umili anche al Tour: “Questo Bauvin è piccolissimo. A vederlo in giacchetta, come mi è capitato l’altro giorno, sembra uno di quegli uomini che, con un fagotto sotto il braccio, escono, una domenica mattina, dall’ospedale, storditi e quasi impauriti dalla novità del sole e del vento”. Lo rifarà soprattutto per gli italiani al Tour, come il faentino Riccardo Brenioli, che si agita e si dimena a bagnomaria fra fuggitivi e gruppo: “Nel paesaggio grigio, sotto il cielo che piange sul ‘pavé’ color piombo, la sua bella maglia tricolore è un canto, un inno, una musica, la cosa più bella e più allegra del mondo”.

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