Pier Paolo Pasolini, da foto Ansa

Scrittori in Giro

Il Giro d'Italia secondo Pier Paolo Pasolini

Marco Pastonesi

Prima di amare moltissimo il ciclismo, lo scrittore si è innamorato della bicicletta. Dal viaggio da Bologna a San Vito pedalando al Processo alla tappa, ecco il PPP a pedali

Sabato 17 maggio 1969. Il Giro d’Italia ha appena vissuto la sua seconda tappa, la Brescia-Mirandola di 180 km, e Davide Boifava, 22 anni, bresciano di Nuvolento, sta respirando quella destinata a rimanere la più felice giornata della carriera. Vittoria di tappa e conquista della maglia rosa. Adriano De Zan, telecronista della Rai monopolistica, cede la linea a Sergio Zavoli per il “Processo alla tappa”. All’arrivo, nello studio allestito sul palco, con “il socialista di Dio” ci sono Fulvio Astori del “Corriere d’Informazione” e Giuseppe Sabelli Fioretti del “Tempo”; collegati, da Milano, Gianni Brera e Fiorenzo Magni, e da Roma, con il giornalista Maurizio Barendson, Raimondo Vianello e lui, Pier Paolo Pasolini.

Zavoli accende una polemica prima fra Michele Dancelli e Franco Bitossi, poi con Vito Taccone e Gigi Sgarbozza, su una fuga del giorno prima (“Si potevano prendere cinque minuti a Merckx”, tuona Taccone), quindi apre il dibattito agli ospiti. E lascia a Vittorio Adorni il compito di rivolgere una domanda (Adorni l’avrebbe poi definita “molto impertinente”) a Pasolini: “È venuto per farsi pubblicità lui, è venuto per vedere se c’è qualche nuovo caso per poter fare un film, oppure per scrivere dei libri? È convinto che nel ciclismo siano solo dei pedalatori, solo dei ‘sfaticatori’ della strada, oppure lei stesso è convinto che ci sia dentro qualcosa, qualcosa di buono da tirar fuori, magari qualche bella storia, qualche bel personaggio da scrivere, oppure qualche film da fare”. Pasolini è sorpreso: “Ma, sono venuto qui perché mi è stato chiesto, devo dire. Lo confesso sinceramente. E siccome mi è difficile rispondere di no, ho detto di sì. In questo caso dire di sì mi è stato facile. In altri casi naturalmente dico di no quando la cosa è grave. Ma venire qui mi piaceva perché il ciclismo è uno sport che amo moltissimo e lo amo da vent’anni, da quando ero un ragazzino. Non so, per esempio, lei sa chi era Canavesi?”. Adorni non replica. Pasolini continua: “Era un corridore che correva 20 anni fa, tanto per dirne uno”. E spiega: “Quindi sono venuto qui semplicemente per amore del ciclismo. Però stando qui, come sempre succede, nascono le sorprese, le cose impreviste. Per esempio, ho visto due facce che veramente prenderei in un film: cioè la faccia di Dancelli e la faccia di Taccone”.

Prima di amare moltissimo il ciclismo, Pasolini si è innamorato della bicicletta. In bicicletta, nell’estate del 1940, mentre l’Italia è in guerra – lui ha 18 anni -, parte da Bologna, passa per Venezia dove visita la Biennale d’arte, fa tappa a San Vito di Cadore, arriva a Casarsa della Delizia. Un giro di oltre 400 chilometri. In una lettera rivela: “Ad ogni modo una cosa bella da essere confusa con un sogno, l’ho avuta: il viaggio da San Vito a qui, in bicicletta: esso appartiene a quel genere di avvenimenti che non possono essere raccontati senza l’aiuto della voce e dell’espressione. L’alba, le Dolomiti, il freddo, gli uomini coi visi gialli, le case e i sagrati estranei, l’accento estraneo, le cime e le valli nebbiose irraggiate dall’aurora”.

Pasolini si sbaglia: la bicicletta può essere raccontata anche solo a parole. Lui stesso ci prova, ci riesce, si supera. Lo fa da scrittore, fin dal suo primo romanzo, “Il sogno di una cosa”, scritto nel 1949 e 1950, pubblicato nel 1952. Lo fa anche da giornalista, quando ai Giochi di Roma del 1960 per “Vie Nuove” intervista il sovietico Viktor Kapitonov, che ha vinto la prova su strada. Lo fa, da opinionista, al “Processo alla tappa”. Lo fa da saggista per la rivista “Tempo” tornando a quella partecipazione al Giro d’Italia. E confessa: “Io avevo accettato di partecipare al ‘Processo alla Tappa’, invitato dai suoi organizzatori, per una sola ragione: perché mi avevano detto che avrei discusso con Merckx del problema del rapporto tra ‘nazionalismo’ e ‘sport’, cui avevo accennato in una nota. Non so per quale ragione, senza preavvertimento se non all’ultimo istante, Merckx è stato sostituito con Adorni (l’unico viso piccolo-borghese, ancorché grazioso, fra tutti i simpatici visi popolari dei ciclisti: Adorni farà, questo è certo, più carriera come annunciatore della televisione che come ciclista)”.

Profezia azzeccata: conquistato il titolo mondiale nel 1968, vertice della carriera, Adorni avrebbe poi condotto il telequiz “Ciao mamma” con Liana Orfei. Ancora Pasolini: “Così si è parlato del più e del meno, cioè del nulla. Ma ho in compenso intuito, attraverso questa esperienza, ciò che è cambiato e ciò che è rimasto nel ‘corpo’ di un atleta rispetto a venti-venticinque anni fa: si è radicalizzato in esso il conflitto tra realtà e irrealtà”. Dove “la realtà è esistenziale, col suo bello e il suo brutto” e “l’irreale è la cultura borghese di massa, coi suoi ‘media’”. Così “in Dancelli, in Taccone, figure umane in carne e ossa, viene vissuto il conflitto tra questi due mondi”. E Merckx? “Merckx è un grandissimo campione perché vince indipendentemente da tutto questo. Il corpo di Merckx è più forte del consumo che se ne fa. Le vittorie di Merckx sono scandali”.

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