Nel nome della Rosa

Quando la maglia rosa è trionfo, ma anche imbarazzo. Intervista a Davide Boifava

Marco Pastonesi

"Per 4 secondi avevo portato via la maglia rosa al mio compagno, che era uno dei capitani della squadra. E adesso?, domandai ad Albani. Adesso ci penso io, mi rispose"

Il 17 maggio 1969. Un sabato. Seconda tappa del Giro d’Italia, la Brescia-Mirandola di 180 chilometri. Pronti? Via.

 

Neoprofessionista. Matricola all’università del ciclismo, giovane anonimo nel linguaggio del gruppo, debuttante al gran ballo del Giro d’Italia. Davide Boifava aveva 22 anni e correva per una squadra – la Molteni – dove aveva solo da imparare. Ma imparò in fretta. Anche a vincere.

 

“Avevamo cominciato alla grande: tappa e maglia rosa con Giancarlo Polidori. E, come minimo, quella maglia bisognava difenderla. Me ne stavo in mezzo al gruppo quando Giorgio Albani, il nostro direttore sportivo, mi domandò che cosa facessi lì, e prima che m’inventassi una risposta, mi ordinò: ‘Prova!’. Ci provai. A una ventina di chilometri dall’arrivo andai in testa al gruppo, scattai, allungai, guadagnai una cinquantina di metri, poi un centinaio, sul piatto andavo forte, poi non mi presero più. Ma schersa mia”. Non scherza mica: “Tappa e maglia rosa”. Fu trionfo, ma anche imbarazzo. “Perché per 4 secondi avevo portato via la maglia rosa al mio compagno, che era uno dei capitani della squadra. E adesso?, domandai ad Albani. Adesso ci penso io, mi rispose, e siccome mi vide impaurito, aggiunse: non preoccuparti”.

 

Davide Boifava aveva un mezzo credito con Polidori: “Il giorno prima avevo fatto una trenata per lanciarlo prima che entrasse, da solo, nello stadio di Brescia, e feci ancora in tempo ad arrivare ottavo”. E aveva un enorme debito con Albani: “Gli devo tutto. Fu lui a farmi passare professionista, fu lui a selezionarmi per il Giro, fu lui a spingermi a provarci. E il giorno in cui decisi di diventare direttore sportivo, quando gli confidai che non sapevo da che parte cominciare, lui mi disse soltanto: parti. Albani era un uomo di poche parole: prova, parti... Il bello è che, partito, il direttore sportivo l’ho fatto per 28 anni. Ma schersa mia”.

 

Quella maglia rosa: “Me la portai nella camera dell’albergo, prima la distesi sul letto, per adorarla, poi la appoggiai su una sedia, per ammirarla, e la mattina seguente la indossai con la stessa solennità – immagino – con cui un sacerdote veste i paramenti sacri. Ma il primato durò poco, soltanto quel giorno. Perché la terza tappa andava da Mirandola a Montecatini Terme, in mezzo c’erano prima l’Abetone e poi il Prunetta, forai proprio quando Eddy Merckx dette una randellata che provocò uno sbrindellio del gruppo, e addio. Ma la maglia rosa tornò a Polidori, e si fece comunque festa”.

 

Quella maglia rosa gli cambiò la vita: “Ero militare, dopo il Car ad Avellino ero stato aggregato alla Compagnia atleti di Napoli, all’Arenaccia. D’inverno spianavo il Chiunzi e l’Agerola, la salita di Ravello e i tornanti del Faito, poi il venerdì sera salivo sul treno, usavo il sacco come cuscino, il sabato mattina ero a Brescia, tornavo a casa, saltavo in macchina e andavo a correre. Ed ero professionista. Ma schersa mia. Così, dopo il Giro d’Italia, quando tornai in caserma, il capitano Picariello volle a tutti i costi presentarmi al generale d’armata. Fu lui, il capitano, a stirarmi la divisa e poi a insegnarmi velocemente il saluto, perché non voleva che facessimo brutta figura. Quando entrammo nel suo ufficio al Maschio Angioino, la prima cosa che il generale disse, quando stavo portando la mano destra alla fronte, fu: ma quale saluto!”.

  

Come premio, il trasferimento: “Da Napoli a Milano, nella caserma di viale Suzzani. Uno dei miei compagni di camerata era Alessio Gimondi. Per vendicarmi della fatica che suo fratello Felice ci imponeva in corsa, trattavo Alessio – lo confesso – con un po’ di nonnismo. Lo chiamavo ‘burbetta’ e gli ordinavo di farmi il sacco, cioè lenzuola e materasso insaccati sulla branda. Ma lo facevo sempre con il sorriso sulle labbra”. Ma schersa mia.

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