Joelson José Inácio - foto LaPresse

Il Foglio sportivo

Le lezioni di rinascita di Joelson

Emmanuele Michela

Da Scommessopoli alla panchina: "Quell’errore mi ha fatto crescere. Mi si gela il sangue però quando incontro dei giocatori che mi dicono: lo avrei fatto anch’io per 22 mila euro"

La rivelazione che più brucia Joelson la fa a fine intervista, ed è un pugno nello stomaco: “Troppo spesso incontro calciatori – avversari che sfido nelle categorie dilettantistiche – che mi chiedono: ‘Quanto ti davano per ogni partita venduta?’. ‘22mila euro’, rispondo io. ‘Allora forse lo avrei fatto anche io…’”. Sorride spesso durante l’intervista, ma gli si gela il sorriso e il sangue quando dice di questi dialoghi. Sono passati 12 anni dal ciclone Scommessopoli e dall’inchiesta Last Bet, per la quale il 41enne di origine brasiliana visse alcuni giorni agli arresti domiciliari per poi patteggiare e scontare due anni e mezzo di squalifica. Una mannaia che ha stroncato la sua carriera quando aveva 29 anni, dondolava tra Serie A e Serie B – Atalanta, Reggina, Pisa, Albinoleffe, Grosseto i principali club dove ha giocato – alternando grandi gol e brutti infortuni. “Recriminazioni? Quando uno sbaglia si mette in croce da sé, chi ti è vicino sparisce perché non vuole essere giudicato per te e non puoi dare colpe a nessuno”.
 

Oggi Joelson parla un italiano perfetto, l’accento bergamasco – terra che lo ha accolto quando aveva 14 anni, arrivò con il fratello Inacio Pià all’inizio solo per fargli compagnia – affiora più della cadenza brasiliana. Ma soprattutto, l’ex calciatore ha la serenità di chi si è preso le sue responsabilità, ha pagato tutto quello che doveva pagare e affrontato i suoi errori. Li ha raccontati ai suoi figli e alla sua famiglia. E ora si sta ricostruendo una vita, una carriera, una credibilità, umana prima che professionale. Allena in Eccellenza (Ac Leon, squadra di Vimercate, provincia di Monza), dopo che nel 2015, a squalifica conclusa, era tornato in campo, in Serie D – ha giocato per Lecco, Pontisola, Caravaggio e Ciliverghe Mazzano. Allena anche una squadra giovanile nella bergamasca e organizza camp estivi.
 

“Il fatto” però è sempre lì: ha un che di indicibile difficile da delineare, nascosto tra la vergogna e il riserbo. Ma nella sua memoria è tutto preciso. “Mi sembra ieri, sento sempre l’errore dentro di me. E oggi mi dico che non avevo bisogno di farlo, mettendomi in quella situazione critica quando il calcio mi aveva dato tutto: una cultura diversa, una lingua, una famiglia, degli amici…”. Quattro sono le partite per le quali gli fu contestato di aver combinato il risultato, assieme ad altri compagni o avversari, tutte disputate all’epoca in cui giocava a Grosseto, nel 2010. La più nota quella con l’Ancona, per la quale Joelson, con un compagno di squadra, aveva incontrato nei giorni precedenti la gara un giocatore dorico, per proporre soldi e concordare un pareggio. Era stato arrangiato anche il risultato delle partite contro Empoli, Reggina e Torino. “Per quest’ultima ci tengo a dire che mi sono preso la responsabilità per accorciare i tempi della squalifica, ma in realtà ero fuori dai giochi”.
 

I sentimenti sono alterni: “Non voglio dimenticare quella esperienza, perché significherebbe negarla e non accorgersi del fatto che ho sbagliato, e che grazie a quell’errore sono cresciuto”. Fa capire che il sistema era ben costruito e rodato, di essersi sentito un ingranaggio “e se non lo avessi fatto io lo avrebbe fatto qualcun altro. Quindi mi lasciai trascinare, e in questo sbagliai, dovevo lasciare sbagliare gli altri. Oggi ho capito, ma dico anche che quel che ho fatto non fa parte di me”. E qui racconta di suo padre: “Per 40 anni ha tagliato la canna da zucchero. È un lavoro distruggente e umile, sotto il calore del Brasile, lui l’ha sempre fatto con la massima onestà. Pensa che aveva provato a fare la patente: all’esame dovevi fare con una penna un percorso, per vedere se la tua mano tremava, e lui non ci riusciva. Al terzo tentativo, gli esaminatori volevano regalargli la licenza, ma lui in ogni caso ha rifiutato”. Papà è stata una delle persone cui Joelson ha fatto più fatica a chiedere scusa: “Siamo 8 fratelli, e se penso quanto hanno fatto lui e la mamma per noi – cambiavamo diverse case, sempre in affitto, la vita non era semplice – e ripenso quanto ho fatto io – nel 2010 avevo il miglior contratto della mia carriera…”.
 

Poi ci sono i figli. Come si fa a raccontargli “il fatto”? “All’epoca erano bambini e non capivano. Ma internet non cancella le notizie, quindi ero sicuro che prima o poi avrebbero saputo. Hai un papà che si è costruito nel calcio e poi è crollato. Cosa penseranno? Due anni fa siamo andati in vacanza a Mallorca e gliel’ho detto. Il più grande, 15 anni, sapeva già tutto, perché magari aveva sentito qualcosa da qualche amico o da qualche genitore. Il più piccolo forse non sapeva del tutto di cosa parlassi. Ci siamo messi a piangere, ma poi entrambi mi ripetevano: devi stare tranquillo papà, noi ti vogliamo bene”. Joelson spesso parla coi ragazzi nei settori giovanili della sua squalifica: “Non mi preparo niente, rispondo a ogni domanda. Ti chiedono di tutto, dal perché al quanto, chi erano… e “ne è valsa la pena?” No. Ero un giocatore mediocre, e facevo della mia forza il sapere dov’ero. Se ero in una squadra e dovevo essere il quarto attaccante, mi sentivo il quarto attaccante e facevo di tutto per esserlo, e lavoravo per diventare terzo o secondo. Ero molto consapevole di essere un calciatore normale, ma con una buona potenzialità mentale. Dopo la squalifica, è crollato tutto ciò, ci ho messo molto a ricostruirmi, anche psicologicamente”. 
 

Resta il ricordo di alcuni momenti umilianti. Come quando a Lecco, dopo la squalifica, un bambino gli chiese l’autografo a fine partita, “e suo padre si avvicinò a me e lo prese per un braccio: “Non farti fare la firma dai venduti!”. Non potevo contestare nulla, aveva ragione quel papà. Ma è una delle cose che più mi ha massacrato il cuore”. Mai quanto il giorno dell’arresto: “Si parlava dell’inchiesta e sapevo che prima o poi sarebbero arrivati a me. In quei giorni però ero in Brasile con la mia famiglia. Alle 5 del mattino mi chiama mio fratello: “Devi tornare”. Sono rientrato a Malpensa immediatamente: all’arrivo, i carabinieri sono saliti sull’aereo per arrestarmi. Ma sono stato anche fortunato: erano tutti agenti di Cremona, dove avevo giocato, quindi ne conoscevo diversi. Mi hanno detto che non mi avrebbero ammanettato, anche perché c’erano i miei figli. È stato avvilente, ma giusto. E lì avevo capito che era finita e che stavo andando incontro a qualcosa di terribile”. Joelson quel fondo l’ha toccato, 12 anni fa, e ora vuole continuare la sua rinascita

 

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