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rugby

Questa volta JPR Williams è uscito per sempre dal campo

Marco Pastonesi

Era una promessa del tennis, scelse il rugby. L'ex estremo del grande Galles degli anni Settanta è morto a 74 anni. In 12 anni vissuti di corsa, scatti e slalom, sei volte la Triplice Corona e tre volte il Grande Slam e 11 partite con l’Inghilterra e mai una sconfitta

Il migliore complimento glielo fece Gareth Edwards, suo compagno di squadra. Dopo un grave incidente automobilistico – auto contro camion – in cui JPR era rimasto coinvolto, Gareth commentò: "Tutto maledettamente normale. Macchina distrutta, autocisterna distrutta, e JPR che se ne esce senza neanche un graffio". Come succedeva sempre in campo.

Stavolta JPR Williams è uscito, per sempre, dal campo. E’ successo oggi, aveva 74 anni. Era una rockstar di quel favoloso Galles degli anni Settanta, rugby, ma un rugby rockeggiante, nel ritmo, nella creatività e nella libertà. Lui era l’estremo. Capelli al vento, basettoni allungati e calzettoni abbassati, gambe e caviglie esplosive, immaginazione al potere. L’uomo in più. E faceva la differenza. In difesa e in attacco. In difesa non faceva prigionieri. E in attacco sbucava, s’inseriva, si aggiungeva.

JPR per John Peter Rhys, di Bridgend, da mamma inglese e papà gallese, tutti e due medici, lui il primo dei quattro figli. Il primo pallone ovale, subito. La prima partita, a sette anni. Contemporaneamente, il tennis. Un talento. A 17 anni la vittoria a Wimbledon, categoria juniores. Scegliere fra tennis e rugby fu inevitabile: "Mio padre non voleva che diventassi un tennista professionista. Pensava che lo sport dovesse essere fatto per gioco e che giocare per soldi inquinasse la sua purezza". Con il rugby, dilettantistico pena la squalifica a vita, quel rischio non si poteva correre.

Una vita, quella di JPR, tutta maiuscola, come il suo acronimo. Per anni fu l’estremo con il maggiore numero di presenze (55, più otto con i Lions). Nella cassaforte dei ricordi e delle statistiche, in 12 anni vissuti di corsa, scatti e slalom, sei volte la Triplice Corona e tre volte il Grande Slam e – soprattutto, almeno per gli autentici gallesi – 11 partite con l’Inghilterra e mai una sconfitta. Felicità allo stato puro. Sempre. Anche quando alla fine della stagione 1981 smise con il rugby del Bridgend e del Galles e ricominciò con il rugby del St. Mary. Tutto un altro rugby: amatoriale, con gli amici, sabato il ritrovo al pub e poi la partita, da terza linea. E le trasferte a Dublino o in Francia, l’amore per il gioco, la gioia della compagnia.

Veloce a gambe, JPR, ma anche a parole. Il giorno in cui il Galles perse con l’Australia 28-9, a Cardiff nel 1984, JPR commentò: "Nessuna leadership, nessuna idea. E neanche abbastanza immaginazione per tirare un pugno a qualcuno in touche quando l’arbitro non guardava". A quel giornalista che, dopo l’Autumn Nations Cup 2020, gli ha chiesto quanti punti ci fossero fra il suo Galles e quello attuale, rispose "cinque", e al giornalista che gli ribatté "soltanto cinque?", lui spiegò "ma noi adesso abbiamo tutti più di 70 anni". Ad aiutare JPR, anche le circostanze e i compagni. Tour dei British & Irish Lions nel 1974 in Sud Africa, 21 vittorie e un pareggio, proprio all’ultimo match. Quattro i test con gli Springboks: dopo il terzo (tre vittorie su tre), i Lions si concessero qualche birra di troppo. Il direttore dell’albergo si lamentò con Willie John McBride denunciando "gravi danni". E il gigante irlandese, serafico, domandò: "Ci sono molti morti?".

JPR non ha mai nascosto la sua devozione al rugby, ma il rugby non era tutto. Il suo autoritratto ha il dono della sintesi e dell’autoironia: "Ho trascorso metà vita a spaccare le ossa sul campo e l’altra metà a sistemarle in sala operatoria". Infatti: medico chirurgo. Maglia rossa (del Galles) e camice bianco (dell’ospedale). E poi altre sfide. Maratoneta, a Londra e a Cardiff, orizzontale e maratoneta – se così può dire – verticale, scalando il Kilimangiaro, quasi seimila metri di altitudine, a 57 anni, per beneficenza. "Strano ma, dopo tutta quella arrampicata, scoprii che raggiungere la vetta del Kilimangiaro fu una delusione. Non sapevo bene che cosa pensare di me. I momenti indimenticabili furono lo spirito di squadra, il lavoro di squadra, lo stare insieme e il fatto che adesso siamo amici per tutta la vita". Insomma: l’anima del rugby.

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