Garlaschelli ha giocato con la maglia della Lazio per 10 stagioni, diventando campione d’Italia nel 1974. Ecco un suo gol nel derby (LaPresse) 

il calcio di una volta

Garlaschelli e lo scudetto della Lazio 50 anni dopo: “Chinaglia il mattatore, io la spalla”

Antonello Sette

“Eravamo un solo Davide contro tanti Golia. Anni più belli di un sogno, ma anche tristi e bui. In cinquant’anni tutto è cambiato, ma forse allora c’era più spazio per la fantasia e le mie finte”

“Sono nato a Vidigulfo, un piccolo comune di neppure settemila anime, ma a quel tempo ce n’erano anche di meno, nel cuore profondo del Pavese. Allora era più semplice iniziare a giocare a pallone, se avevi una predisposizione. Il Vidigulfo giocava in terza categoria. Ho iniziato con loro. La maglia ricalcava da vicino quella del Milan. Giocavamo a sentirci giocatori veri, mai e poi mai avrei pensato di arrivare in Serie A e, tanto meno di vincere il primo scudetto della storia della Lazio. Sono passati cinquant’anni. Un’eternità. Il mondo è diventato un altro, ma il primo scudetto, come il primo amore, non si scorda mai”.

   
Questa è la storia di Renzo Garlaschelli, che per gli amici e i tifosi della Lazio sarà Garla per sempre, venuto dalle brune della pianura, sospesa fra l’Olona e il Lambro meridionale, a conquistare Roma e l’Italia calcistica. Lui la vita l’ha sempre presa sul serio, anche se a renderlo una leggenda biancoceleste è stata la finta. Una finta a uscire micidiale, con cui ingannava gli avversari, saltandoli come se fossero birilli, per poi servire al centro dell’area uno che di nome faceva Giorgio Chinaglia, al secolo dei secoli Long John.


“Sono arrivato a Roma, dopo una breve gavetta al Sant’Angelo e al Como, in serie B, dove arrivammo secondi, dietro la Lazio, e mi notò un certo Tommaso Maestrelli, l’artefice massimo dello scudetto che sarebbe arrivato, come una manna dal cielo biancoceleste di Roma. Ricordo, come se fosse ieri, le prime parole che mi disse il mister: ‘Tu sei bravo, ma la palla la devi passare a Chinaglia che, oltre ad avere il fiuto del gol, è un rompiscatole di professione e la vuole sempre lui’. Di palloni gliene ho effettivamente passati tanti, ma ne è valsa la pena. Sono stati dieci anni altalenanti. Più belli di un sogno, ma anche tristi e bui, come un incubo calato senza preavviso. Quella Lazio è stata una parabola della vita. Abbiamo dato, abbiamo avuto, abbiamo subito. Tutte quelle morti precoci sono state un terribile prezzo da pagare al destino. Maestrelli e Re Cecconi ci hanno lasciato per sempre nel giro atroce di poco più di un mese”.

  

Che cosa è la Lazio per lei?
“La Lazio è stata ed è ancora la mia vita. Dieci anni intensi, legati dal filo rosso di un’impresa, che è rimasta unica. Eravamo un solo Davide contro tanti Golia. Ha vinto Davide. Ha vinto la Lazio. Dieci anni di calcio, ma non solo. Credo che Garlaschelli sia amato non solo per quelli che oggi chiamano assist, ma per quello che era. Per me l’amicizia era e resta un valore che travalica le domeniche passate a ripetere una finta. La ruota del calcio gira. Gli amici, quelli veri, restano”.

 
Quella Lazio è rimasta famosa per i clan che la dilaniavano, ma erano anche la sua forza. Lei stava formalmente dalla parte di Gigi Martini e di Luciano Re Cecconi, ma in realtà amava restarsene in disparte. Era come un alieno sbarcato su Marte…

 
“Sì, ero estraneo ai due poli contrapposti. Una volta finito l’allenamento, scappavo via. I primi anni me ne andavo a zonzo per Roma e mi immergevo fra le sue bellezze. Non sparavo al lampadario perché non avevo voglia di alzarmi dal letto per spegnere la luce. Io mi facevo, come si dice, con discrezione i fatti miei”.

 
Correva voce che fra le strade di Roma lei preferisse via Veneto, che avesse un’inclinazione per le belle donne e conducesse una vita da bohémien e che, dicevano i maligni, ci fosse una bella contessa…

 
“Sono solo leggende metropolitane, inventate di sana pianta. Mi creda. Non è vero niente. Ero tutto casa e campo di allenamento, oltre che un turista per caso, avido di conoscenza e meraviglie”.

 
Ricorda quella maledetta sera in cui Re Cecconi pagò con la vita l’ingresso in una gioielleria con il bavero dell’impermeabile alzato?

 
“Non c’erano i social. Ero a casa. Ebbi la notizia guardando il telegiornale. Allora era difficile che nei notiziari si parlasse di sport. E invece scorrevano le immagini di Cecco e parlavano di lui. Telefonai a Gabriella Grassi, che era la mitica segretaria della Lazio, non so bene se per avere una conferma o per cercare conforto, di fronte a quella terribile notizia. C’è una versione ufficiale che va rispettata, ma quello che veramente accadde in quella gioielleria nessuno lo saprà mai. Sì, gli piaceva scherzare, ma sembra tutto troppo banale. Il volto di Luciano a Roma lo conoscevano in tanti. La morte del nostro angelo biondo fu un colpo al cuore. Una delle tante ferite, che nessuno potrà mai più rimarginare. È stato tutto troppo bello. È stato tutto troppo breve. I superstiti di quella squadra leggendaria si contano sulle dita di una sola mano. I ricordi sono tanti e non sono solo belli”.

 

Un'azione di Garlaschelli, Lazio-Lanerossi (LaPresse)
   

Vi siete rivisti qualche volta?


“Non c’erano i telefonini. Ci eravamo in un certo senso dispersi, ma, quando ci siamo rincontrati dopo tanti anni, è stato come riscoprire il valore dell’amicizia. Giancarlo Oddi, ma anche Pino Wilson, Vincenzino D’Amico, Felice Pulici. Volti di una grande storia vissuta insieme. Ogni volta che venivo a Roma, c’era sempre una serata dedicata ai ricordi. Volti di una tavolata, che ora ci guardano dal cielo, come mia moglie Livia, che mi ha lasciato lo scorso primo dicembre”. 


Che ricordo ha di Chinaglia?


“Un grande calciatore, un meraviglioso compagno di squadra, un trascinatore, un amico e, soprattutto, una bella persona. Forse un po’ egoista, ma, se pensi prima agli altri e poi a te stesso, non diventi quello che è stato Giorgio Chinaglia. Era un mattatore e io la sua prima spalla. Forse senza di me avrebbe segnato qualche gol in meno”.

 
Non faccia il modesto. Lei non è stato solo una spalla. L’ha buttata dentro per 69 volte, entrando nella top ten dei marcatori della Lazio di ogni tempo…


“Sì, è vero, ma rimane il fatto che non mi sono mai sentito un goleador. Non ero nato per segnare, ma per saltare il mio dirimpettaio e lanciare il pallone al centro dell’area. Prima per Chinaglia e poi, quando lui aveva scelto l’America, per quel fuoriclasse nascente che era Bruno Giordano”.


Il 12 maggio del 2024 sarà trascorso mezzo secolo dal giorno fatidico di uno scudetto, che ai laziali sembrò l’epilogo di una favola iniziata settantaquattro anni prima, con i tifosi radunati fuori dallo stadio sin dalle sei del mattino e i cancelli aperti alle otto e mezza…


“Non ho ricordi nitidi. So che fui espulso al minuto 62 per uno stupido fallo di reazione. Ero un calciatore tranquillo, ma il nervosismo buggerò anche me. Fu una partita complicata. Ricordo che si fece male Gigi Martini. Il Foggia si giocava la serie A e a noi tremavano le gambe per la responsabilità. Sapevamo che stavamo scrivendo una pagina di storia”.


Quella Lazio le è rimasta dentro? È laziale?


“Come potrei non essere laziale? Non posso dimenticare quello che abbiamo fatto e quello che siamo stati. A distanza di cinquant’anni, sento ancora sulla mia pelle il legame forte e indissolubile che unisce i tifosi a quella Lazio. Sono stato l’ala destra di una squadra unica, che veniva dalla serie B e che ha prima perso uno scudetto all’ultima giornata e poi vinto quello successivo. A dispetto di tutti pronostici. A dispetto della logica. Al cospetto di corazzate super attrezzate, come Milan, Inter e Juve E poi, la Lazio ha dietro di sé una storia romantica, che nessun’altra squadra possiede. La Lazio è nata perché il suo fondatore aveva un insopportabile mal d’amore e qualcosa di grande si doveva inventare per non impazzire. E i colori, le bandiere. Uno spettacolo da brividi che si ripete ogni domenica”.

 
Gli scudetti avrebbero potuto essere due?


“Eravamo a una sola incollatura dal Milan capolista. Nessuno si aspettava che potesse perdere a Verona. Quando, a metà della partita col Napoli, sapemmo che era sotto di due gol, ci mancarono le energie mentali per afferrare qualcosa a cui non avevamo più creduto. Fu forse la peggiore Lazio di tutta la stagione. Vinse il Napoli. E lo scudetto andò alla Juventus che all’Olimpico ribaltò una Roma improvvisamente stanca. Noi arrivammo terzi e, a quel punto, fu una beffa. Sì, il rimpianto di quello scudetto perso all’ultimo respiro non è mai del tutto svanito”.


Sono passati cinquant’anni. Che cosa è rimasto di quella squadra e di quel calcio?

 
“Cinquant’anni sono tanti. Le macchine una volta andavano a cento all’ora e oggi superano i duecento. È cambiato tutto. Oggi corrono di più e sono meglio preparati. Meno tecnica? Meno finte? Forse c’era più spazio per la fantasia. Oggi l’aggressività la fa da padrona e per le giocate è molto più difficile farsi largo, ma il tempo passa e non ci si può fare niente”. 


È cambiato anche il rapporto con i tifosi?


“Era un calcio casereccio. Era il calcio de noantri. Tor di Quinto, dove ci allenavamo, era un porto di mare. Oggi ci sono i centri sportivi, che assomigliano ad altrettanti resort esclusivi, dove si vive blindati, come dentro un bunker. La colpa non è dei giocatori. Li hanno rinchiusi in una campana di vetro, senza chiedere loro il permesso. È, a quel che capisco, la modernità e nessuno la può fermare”.


Dopo la Lazio e uno scampolo di carriera a chiudere, è tornato nel suo piccolo paese. È qui che ora si ferma il suo mondo?


“Sono tornato dove sono nato e la mia vita penso di finirla qui. Mia moglie, che ho appena perso per sempre, l’ho conosciuta a Vidigulfo, dopo che le luci abbaglianti della ribalta si erano spente. Mi è stata accanto per più di trenta anni riempiendo la mia vita di bellezza e di amore. È stato un dolore immenso. La famiglia è la cosa più importante di tutte.  Mi mancano tutti quelli che erano una parte di me, che in qualche modo mi appartenevano e sono usciti di scena. Sì, Vidigulfo è il mondo. Il mondo che mi è rimasto. Qui ho tanti amici che mi fanno ogni giorno sentire il calore della vicinanza, ma Livia mi manca maledettamente. La mia vita è stata tutta una sorpresa. Giocare in serie A, vincere uno scudetto, i gol, gli amici, l’amore: tutto inaspettato, come un sogno che arriva all’improvviso, chiede spazio e vuole restare. Vorrei ancora sorprendermi. Chissà, magari la partita si allunga e a me riesce un’altra finta”.


  

Dal 5 gennaio Sky propone i tre episodi di “Grande e maledetta – La Lazio del ‘74” uno speciale curato da Stefano De Grandis. Al centro della produzione originale Sky Sport, l’incredibile parabola della Lazio di Tommaso Maestrelli.

 Genesi, trionfo e caduta di una squadra divisa nello spogliatoio, ma unita e vincente al momento di scendere in campo. Dalla Serie B allo scudetto, passando attraverso le risse e le morti premature nel contesto sociale caratterizzato dalla violenza politica degli anni Settanta.

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