Stefano Pioli - foto Ansa

Il Foglio sportivo

Com'è finito un amore da scudetto tra il Milan e Pioli

Umberto Zapelloni

L’anno prossimo l'allenatore non sarà più sulla panchina rossonera. Ma già contro il fatal Sassuolo rischia il posto

C’era una volta il Piolismo. Non era proprio un’arte, ma un modo di intendere il gioco del calcio che aveva restituito al Milan l’orgoglio, la Champions e uno scudetto inaspettato. Da Sassuolo, dove il 22 maggio 2022 si festeggiò il tricolore, al Sassuolo che oggi pomeriggio potrebbe interrompere la carriera rossonera di Stefano Pioli. 588 giorni dopo lo scudetto c’è il rischio che il solito Berardi possa far saltare un altro tecnico rossonero, come era già capitato con Allegri nel gennaio del 2014, quasi dieci anni fa. Un tempo a esser fatale era il Verona. Oggi a diventare fatale può essere il Sassuolo che a San Siro ha vinto le ultime tre partite e aveva cominciato l’anno che sta per finire con un incredibile 5-2 contro uno dei Milan più brutti degli ultimi tempi. Pioli non è più on fire da tempo, ma vincendo e forse anche pareggiando può salvare la panchina e mangiarsi anche il cotechino con le lenticchie dopo il panettone. Il piolismo però è ormai finito. Nonostante i numeri non siano poi così male: 114 vittorie, 52 pareggi e 45 sconfitte nelle 211 partite in cui si è seduto in panchina. Il problema è il trend.

Nel 2023 inteso come anno solare il Milan ha fatto 16 punti in meno dell’Inter, 6 in meno del Napoli e uno in meno della Juve, ma soprattutto ha subito 48 gol segnandone 66. Prendere 21 gol in più  dell’Inter non è un segnale confortante. D’altra parte basta guardare i nomi che spesso Pioli, in emergenza continua per gli infortuni, è costretto a schierare. L’amore però non c’è più e la sensazione è che Cardinale &c. lo avrebbero già sostituito se solo avessero già trovato un’alternativa valida. Abate e Ibra non sono ancora la scelta giusta, soprattutto se Ibra continua a girare così al largo da Milanello. 

A fine anno, con o senza la Champions, l’avventura di Pioli cominciata nel 2019, si concluderà. #PioliOut è diventato più volte un hashtag di tendenza tra i tifosi rossoneri. L’amore è finito prima della scadenza. E ovviamente ha fatto scattare il toto sostituto con il nome di Conte davanti a tutti nei sondaggi, nonostante il suo passato. Ma perché è finito l’amore con un tecnico che ha riportato il Milan allo scudetto e in semifinale di Champions? Quello che i tifosi non possono perdonargli sono i cinque derby di fila persi. Una cosa mai vista prima. E se le sconfitte non bastassero, ad irritare sono spesso state le dichiarazioni del mister. Batoste giustificate con parole che se le avesse dette vostro figlio lo avreste messo in castigo per una settimana. Se dopo un 5-1 hai il coraggio di dire “Nei primi 4 minuti abbiamo tenuto la palla solo noi”, capite anche voi come sia difficile non credere di essere su Scherzi a parte. Pioli soffre Simone Inzaghi come Pippo Inzaghi soffriva i guardalinee. Basterebbe il suo curriculum stracittadino per giustificare il #PioliOut. Ma come se non bastasse vanno aggiunti i trenta infortuni stagionali, le bizzarre scelte tecniche viste in qualche occasione, la tendenza  a farsi recuperare partite che sembravano già vinte, la poca voglia di qualche campione che spesso sembra avere la testa staccata dal corpo e il cuore nello spogliatoio. 

Quando finisce un amore però le colpe difficilmente stanno tutte dalla stessa parte. Anche la società ha le sue. Essersi liberati di Maldini nello stesso anno in cui Ibra lasciava il calcio è stato un peccato mortale. Togliere contemporaneamente due uomini che avevano un peso particolare nello spogliatoio ha avuto l’effetto che si ha quando si toglie il tappo dalla vasca da bagno. Tutto si svuota. Tanto che si è cercato di porre rimedio offrendo a Ibra un contratto per un ruolo non ben identificato che però nel bel mezzo della crisi lo ha portato su una spiaggia di Miami e non a Milanello. Un ingaggio più per lo show che per la sostanza, almeno per ora. Nell’estate in cui perdi due personalità così ingombranti poi vai a riempire lo spogliatoio di facce nuove, anche giovani e non accendi un nuovo faro per indicare la direzione. L’unico ad alzare la voce è stato Calabria, un milanista vero. Ma non basta. Certe volte dal campo arrivano immagini sconfortanti come quella di Leao (a secco da 4 mesi a San Siro) che non esulta più di tanto al gol di Tomori a Salerno. Lui ha il talento, ma servirebbe anche l’anima. Si sono persi l’entusiasmo, l’energia e la magia che hanno portato in meno di un anno allo scudetto e alla semifinale di Champions. Spendere 116 milioni in estate e non cambiare il destino di una squadra è grave. 

Algoritmo o non algoritmo, qualcosa non ha funzionato. Dopo la fiammata iniziale la luce si è spenta e oggi sono in tanti a pensare che sarebbe stato meglio prendere tre giocatori determinanti con quella cifra piuttosto che riempire la rosa di promesse o di campioni fragili (vedi Loftus Cheek). Così con Pioli finisce sotto accusa anche la gestione Cardinale che, brillantissima dal punto di vista commerciale (a parte lo stadio, ma lì la colpa è di Milano e del suo sindaco) non ha ancora inciso sul piano sportivo. L'obiettivo resta la qualificazione in Champions, arrivare tra i primi quattro in campionato o vincere l’Europa League. È ancora a portata di gol. Ma serve invertire la rotta immediatamente perché ormai il Milan non guarda più a chi gli sta davanti sognando l’aggancio, ma guarda preoccupato a chi arriva negli specchietti retrovisori. Per non versare tutto il latte nel secchio non serve mettere sotto accusa il tecnico e poi lasciarlo al suo posto. Serve chiarezza e un mercato invernale che abbia un senso. Uomini più che algoritmi per aiutare la vittima designata a concludere in porto la sua ultima traversata nella tempesta. Anche se l’amore è finito ci possono essere divorzi più morbidi degli altri. Il Milan ha bisogno di questo in un anno che potrebbe finire con la seconda stella sul petto dei cugini della porta accanto, quelli che hanno trasformato un mezzo scarto come Calhanoglu in un uomo decisivo. Come una volta succedeva con il tragitto inverso.

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