facce dispari

Maria Cecchi, l'amor proprio mette ko la violenza

Francesco Palmieri

La campionessa romana di boxe, soprannominata “Russian Hurricane”, ha conquistato la corona di Supergallo Wbc del Mediterraneo. Con un pensiero alle donne vittime della violenza: "La chiave sta nell’amor proprio e non riguarda solo i femminicidi ma la minuta violenza. Una ragazza nemmeno deve accettare che la insultino i compagni di classe"

Quando vinse il titolo italiano dei Supergallo a novembre 2020, Maria Cecchi, pugile professionista, lo dedicò “a tutte le donne che sono vittime di violenza perché la mia forza possa essere da esempio per trovare coraggio e determinazione”. Tre anni dopo, il 25 novembre scorso a Barcellona, ha conquistato la prima cintura internazionale: campionessa Supergallo Wbc del Mediterraneo. Romana, ventottenne, il nickname di Maria ‘Russian Hurricane’ svela due tratti: è di madre russa e travolge come un uragano ciò che tocca, anche se stessa, in una lotta fra carattere irruento e disciplina, tra eccessi di sensibilità e durezza necessaria per non esserne sopraffatta.

 

Questo titolo a chi lo ha dedicato?

Mi suggerivano un omaggio a Giulia Cecchettin, assassinata dall’ex fidanzato, ma ho detto no: sarebbe stato un modo subdolo di strumentalizzare la vicenda e non potevo permettermi questa mancanza di rispetto. Ne hanno parlato già in troppi e dubito che servirà a non far morire altre persone nello stesso modo.

 

Cosa serve?

La forza delle donne. Sono passata anch’io per situazioni tossiche e quando t’innamori c’è sempre il rischio che subentri un meccanismo di dipendenza. Bisogna superarlo, allontanandosi alla prima mancanza di rispetto con grande dose di amor proprio. Non si deve mai subire.

 

L’omicida di Giulia era giudicato “un bravo ragazzo”.

È imbarazzante sentirlo dire. Le apparenze non svelano l’animo umano: non si giudica una persona per gli occhialetti o i tatuaggi. Tutt’al più si potrà dire che si faticava ad aspettarsi il male da qualcuno, ma è come per il suicidio: non può stupire che chi lo ha commesso rideva il giorno prima. La cosa più saggia è ricavare un monito: se una persona è morbosa, possessiva, invidiosa del tuo successo devi agire subito. La chiave, ripeto, sta nell’amor proprio e non riguarda solo i femminicidi ma la minuta violenza. Una ragazza nemmeno deve accettare che la insultino i compagni di classe.

 

Bisognerebbe puntare, come pensa qualcuno, sulla “educazione affettiva” nelle scuole?

Sono le donne che si devono attivare. Sperare che gli uomini cambino è un atteggiamento passivo e sbagliato. Non bisogna dire: “Mi hanno fatto questo”. Piuttosto: “Mi sono fatta fare questo”.

 

Le è mai capitato di subire violenza?

L’anno scorso, in pieno giorno e in una zona centrale di Roma, ho subìto un tentativo di stupro. Bisogna essere pronte a difendersi e non parlo da pugile, perché anche ritenersi invincibile è un falso mito. Bisogna urlare, suonare il clacson, se possibile far male all’aggressore. Alle brutte, scappare.

 

C’è qualcosa da correggere nei comportamenti femminili?

Sul web siamo bombardati da immagini di ogni tipo. Se una ragazza per affermare la propria identità esibisce le tette, deve rendersi conto che alimenta dietro lo schermo anche fantasie malate di uomini che vivono sullo stesso pianeta. È uno sbaglio copiare Belén o chi lo fa per lavoro.

 

Anche lei ha aperto un profilo OnlyFans.

Ma lo gestivo col mio fidanzato, che era nei video con me, per finanziare il mio sport. I miei unici incontri dal vivo sono quelli di boxe e la mia identità è tangibile: la cintura conquistata. Come tangibili sono una laurea o un’opera di volontariato. Rappresentano valori concreti, se non cerchi questi ti fai dei falsi miti e li ingeneri negli altri creando a tua volta illusioni.

 

Il pugilato è una forma di rivalsa?

È una forma d’amore. Devi amarlo per sopportare gli sforzi che richiede, ma anche alzarsi al mattino per lavorare come cassiera è un sacrificio.

 

Qual è stato il suo match più bello?

L’ultimo. Un bellissimo viaggio introspettivo. Prima stavo quasi pensando di ritirarmi, ero depressa, non vedevo nuovi stimoli. Poi c’è stata l’occasione di andare a Barcellona, davanti a un pubblico ostile. Sono stati dieci round. Nelle prime riprese pensavo di essere arrivata lì per perdere, poi mi sono detta: “E se volessi vincere per forza?”. E ho scelto di vincere, perché vincere è una scelta. Non ho cercato il ko, ma di impormi. Ci sono match contro se stessi, contro i complessi che hai sviluppato pensando di essere nata per perdere e perdi per corrispondere a quel quadro di fallimento. Quando sei sul ring vengono fuori tutti i conflitti interiori.

 

Dieci round sono tanti.

Possono sembrare dieci anni. Ci sono incontri in cui pensi solo alla tecnica, sei in trance agonistica, e altri dove per la testa ti passa di tutto. Quando faticavo a respirare, e sentivo le gambe pesanti, mi tornava in mente un incidente stradale di tanti anni fa. Mi stavo spegnendo, non sentivo più gli arti ma scongiuravo il mio cuore di battere ancora.

 

Quando capisce contro chi combatte? Quando programma l’incontro o solo sul ring?

Te n’accorgi quando ti trovi lì. Fallii la sfida con Mary Romero perché lei non era disposta a perdere, mentre io uscivo da un periodo di depressione e avevo da poco cambiato team. Lei aveva a bordo ring marito e figli, io stavo da sola. Ma dopo il match siamo diventate molto amiche.

 

Quali sono i suoi obiettivi?

Il titolo europeo e poi il mondiale: è lì, però bisogna avere il coraggio di allungare le mani per prenderlo.

 

Cosa fa quando non s’allena?

Ascolto musica e leggo. A Barcellona ho portato il libro preferito: ‘Così parlò Zarathustra’ di Nietzsche.

 

Lei è una campionessa. Ma è una pugile o un pugile?

Sono un pugile al maschile senza maschilismo. Mi sento campionessa, più che per il titolo, perché sono uscita da strade in cui avrei potuto perdermi. Già che sono qui viva è una vittoria.

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