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Olive #6

Lo spartito di Yacine Adli

Giovanni Battistuzzi

A quasi un anno di distanza dalla sua prima e ultima volta, il francese è tornato a giocare titolare nel Milan. In un ruolo nuovo e da persona diversa. Il lungo adattamento al calcio italiano del giocatore che voleva essere musicista

Zinédine non è un nome facile da portare, soprattutto se si gioca a calcio, soprattutto se ci si muove sulla trequarti, soprattutto se si ha il tocco e l'inventiva del numero dieci. Soprattutto se si è francesi ma le origini sono al di là del Mediterraneo, in Algeria. Yacine Zinédine Adli porta addosso da sempre il segno si Zizou, dal primo giorno di nascita in poi, ogni giorno sui campetti di calcio dell'Île-de-France, a Villejuif e dintorni, nemmeno dieci chilometri dal centro di Parigi.

Zinédine è un monito e un'esortazione a calci, dribbling, tiri che si avvicinano il più possibile alla perfetta eleganza, perché questo in fondo è stato Zinédine Zidane, un campione eccezione di una rara, forse unica, eleganza, ma pratica e funzionale, mai fine a se stessa. Yacine Zinédine Adli preferisce farsi chiamare solo Yacine, sa che nel calcio un nome non è soltanto un nome, è un'aspettativa. E se sei francese di origine algerina, giochi sulla trequarti, arrivi dal Bordeaux e di te si parla un sacco bene e con paragoni importanti allora questa aspettativa è alta, altissima, totalitaria. Soprattutto se giochi a calcio solo perché sei bravo, perché in fondo è un lavoro come un altro, e parecchio ben pagato, ma vorresti fare altro, le tue ambizioni, le tue passioni, vanno ben al di là di un rettangolo di prato con due porte e un sacco di gente che ti guarda.

Sul finire del 2019, all'inizio della sua affermazione da calciatore, al quotidiano Sud Ouest aveva confidato che “il calcio è uno sport eccezionale, mi diverto molto a giocare, però nella vita c'è altro, c'è un mondo da capire ed esplorare, c'è un percorso da compiere di conoscenza, ci sono i libri, c'è molta musica. C'è il pianoforte. Realizzarsi nel calcio sarebbe ottimo, ma creare su un campo è qualcosa di fisico, creare musica è invece qualcosa di vitale, che riempie tutta la vita, ti permette di esprimere tutto te stesso”. Qualcosa di diverso, di vitale, come un pallone non potrà mai essere.

Chissà se nella sua prima stagione al Milan, Yacine Adli ha ripensato a queste parole, se non gli è tornata la voglia impellente di musica, di tracciare con le note il suo essere uomo, invece di continuare a inseguire una palla che vedeva solo in allenamento e quasi mai in partita. Gli altri si muovevano e lui rimaneva fermo, bloccato su di una panchina, come nemmeno uno scrittore davanti a una pagina bianca. Aveva la possibilità di sbottare, di mandare tutto a quel paese, di andarsene altrove, cercare un nuovo luogo, un nuovo palcoscenico dove esibire il suo talento. Poteva dire, giustificarsi, di essere incompreso. Nell'arte funziona, soprattutto nella musica.

Non lo ha fatto. È rimasto. Nonostante attorno a lui fosse cambiato molto senza cambiare nulla. In panchina, a pochi metri da lui, c'era sempre quell'uomo che aveva preferito metterlo in disparte, come si fa con quelli dei quali non si sa che farsene. Ha detto: io da qui non me ne vado, perché è qui e non altrove che devo dimostrare il mio valore.

Ha la testa dura Yacine Adli. I modi gentili e il sorriso timido a volte ingannano, ci fanno dimenticare che la determinazione non deve per forza esprimersi in rudezza.

Yacine Adli ha cercato di capire cosa non andava in lui, il motivo di tanta diffidenza. Si è messo a disposizione, come sempre aveva fatto, lavorando per entrare in un'altra dimensione, quella del centrocampista che doveva anche difendere e non solo attaccare. Si è adattato alle regole della tattica, mettendo da parte, forse abortendo, quelle della creazione artistica, che troppo romanticismo ci ha convinto fosse opera geniale determinata dall'abbandono totale della passione. Forse ne era convinto anche il francese. Ha messo da parte le convinzioni, ha preso in mano il cesello, lasciando in saccoccia il pennello. Non lo ha abbandonato del tutto, se l'è tenuto a portata di mano, qualora servisse.

Stefano Pioli ha deciso che forse il francese meritava una seconda chance, che magari era solo questione di tempo. A un certo punto si è convinto che nel Milan quei suoi piedi capaci di calciare il pallone, quella sua sensibilità artistica, potevano tornare utili. Non in attacco però, che quello era il posto della velocità, non certo la dote migliore di Yacine Adli. Gli ha allungato il campo da gioco, posizionato al centro del campo, suggerito di usare oltre al cesello pure la clava. L'ha usata poco nei primi cinquantotto minuti passati in campo in questa stagione, se ne è dimenticato dell'esistenza quando serviva. Ha ripudiato la cattiveria quando serviva, lasciando la palla a Nahitan Nández che l'ha passata a Zito Luvumbo che ha segnato. L'ha iniziata a usare poi, alternandola alla gentilezza del tocco e alla purezza della geometria.

Non era scontato che accadesse.

Yacine Adli è ritornato in campo, è tornato a calciare un pallone, vorrebbe renderlo note su uno spartito rossonero. Tanto come dice lui “per questa maglia mi puoi mettere anche terzino”.

       


     

Anche quest'anno c'è Olive, la rubrica di Giovanni Battistuzzi sui (non per forza) protagonisti della Serie A. Piccoli ritratti, non denocciolati, da leggere all'aperitivo. La prima giornata è stato il momento di Jens Cajuste (Napoli). Il secondo appuntamento è stato dedicato a Luis Alberto (Lazio); nella terza giornata vi ha tenuto compagnia Ruggiero Montenegro con Federico Chiesa (Juventus); nella quarta è stato il turno di Andrea Colpani (Monza); nella quinta di Romelu Lukaku (Roma).