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mondiali di rugby

Quando l'Uruguay del rugby dovette affrontare un disastro aereo

Marco Pastonesi

Quasi cinquantadue anni fa lo schianto del Fairchild F-227 che uccise 29 persone, molte dei quali giocatori dell'Old Christians di Montevideo. Alcuni dei sopravvissuti di allora saranno in tribuna per Uruguay-Italia ai Mondiali di rugby

Il 13 ottobre 1972 un Fairchild F-227 dell’aviazione militare uruguayana decollò da Mendoza, Argentina, diretto a Santiago, Cile. Alle 15.21 il pilota riferì alla torre di controllo di Santiago che stava sorvolando il passo del Planchon, sulle Ande, al confine fra Argentina e Cile. Alle 15.24 il pilota comunicò di trovarsi sopra la cittadina di Curicò, Cile. E dalla torre di controllo venne autorizzato a virare a nord e cominciare la discesa verso l’aeroporto Pudahuel di Santiago. Alle 15.30 il pilota annunciò di trovarsi alla quota di 5mila metri. Ma alle 15.31, quando dalla torre di controllo si cercò di rispondere e indirizzare, il contatto era saltato. L’aereo non era più visibile, rintracciabile, reperibile. L’aereo era scomparso.

Il viaggio dell’aereo era cominciato il giorno prima, da Montevideo, Uruguay. A bordo, 45 persone. Cinque dello staff: pilota, secondo pilota e tre assistenti di volo. E 40 passeggeri: 15 giocatori di rugby e 25 fra amici e parenti. I 15 giocatori di rugby facevano parte di una squadra battezzata il Club dei Vecchi Cristiani, nata nel collegio Stella Maris di Montevideo, fondata da laici irlandesi che, come educazione, si servivano proprio del rugby. E il rugby non è solo uno sport, ma una disciplina morale.

L’aereo, ufficialmente scomparso, si era schiantato. Contro una montagna: roccia e neve. A 3.800 metri di quota: di notte, sottozero. Freddo, fame, sete. Traumi, malattie, infezioni. Feriti e morti. Disperazione. E disperati tentativi di tornare al mondo. Più che disperati, tentativi impossibili, abortiti, falliti. L’ultimo riunì i tre più coraggiosi, convinti e resistenti, ed erano tre rugbisti: Roberto Canessa, Fernando Parrado e Antonio Vizintin. Non si poteva più attendere. Un solo giorno di attesa in più avrebbe significato la morte di altri ragazzi fino a quel punto sopravvissuti. Addosso, i tre indossarono tutto il possibile. Parrado, come abbigliamento intimo, s’infilò una canottiera Lacoste e un paio di pantaloni lunghi da donna. Sopra, tre paia di jeans e sei maglioni. Si coprì la testa con un passamontagna di lana, più un cappuccio, e si riparò le spalle con pezzi ritagliati da una pelliccia, e sopra a tutto un giubbotto di lana. Ai piedi, scarpe da rugby e quattro paia di calze rivestite da sacchetti di plastica del supermarket, guanti e occhiali scuri. E un’asta di alluminio come bastone o piccozza. Le provviste – pezzi di carne, pezzi di fegato – erano state calcolate, con molto ottimismo, per durare 15 giorni.

Le difficoltà furono enormi per la lentezza del procedere, per le pareti verticali, per l’approssimazione della posizione, per l’incertezza dell’orientamento, per la mancanza delle forze e dell’allenamento. Ma l’istinto alla sopravvivenza valeva di più. Dopo tre giorni terribili di salita, Parrado e Canessa continuarono a salire e cercare e sperare, Vizintin tornò alla fusoliera per informare i compagni e risparmiare le provviste. Per Canessa e Parrado ci vollero altre tre ore per raggiungere la vetta e altri quattro giorni per scendere nella valle, percorrerla prima nella neve poi su rocce e prati, fino a trovare tre uomini a cavallo, e un altro giorno per essere finalmente salvati.

Era il 21 dicembre 1972. Settanta giorni dopo l’incidente. E ormai nessuno, neppure i familiari, speravano nel miracolo. Com’era stato possibile? La verità filtrò attraverso – come chiamarla? indiscrezione? confessione? confidenza? - un componente del Soccorso andino. I superstiti si erano salvati mangiando carne umana. Cannibalismo, antropofagia. Fu choc, scandalo, polemica. Fu una bomba non solo in Cile e Uruguay, ma in tutto il mondo. Toccò a Pancho Delgado, uno dei 16, raccontare – fra teoria e teologia – che quando giunse il momento in cui non avevano più viveri, si dissero che se Gesù, durante l’ultima cena, aveva spartito la sua carne e il suo sangue con gli apostoli, così avevano fatto anche loro, una sorte di comunione. Anche la Chiesa cattolica si schierò: non condivise l’idea della comunione, ma paragonò l’assunzione della carne al trapianto degli organi.

Mercoledì 20, alle 17.45, a Nizza, l’Uruguay affronterà l’Italia nel girone eliminatorio della Coppa del mondo di rugby. Alla partita assisteranno Vizintin e forse altri di quei vecchi uruguaiani, sopravvissuti sulle Ande.

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