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Il Foglio sportivo

A 80 anni Rivera non è ancora passato di moda

Massimo M. Veronese

Ogni occasione per citarlo (a proposito) è buona. Il Golden Boy anche oggi compare in decine di interviste 

Sembrava una battuta di Diego Abatantuono ma non lo è: “Nel portafoglio di mio nonno trovai due foto ingiallite, una era di Padre Pio, l’altra di Gianni Rivera. Gli chiesi: nonno, chi sono? Uno, mi rispose, fa i miracoli e l’altro è un popolare frate pugliese…”. Uno ha le stigmate del santo, l’altro il marchio del Diavolo: perché c’è ma non si vede, si maschera ma non può nascondere la coda, sembra una leggenda antica ma è sempre tra di noi. Un po’ Greta Garbo e un po’ Che Guevara, spiazzante ancora oggi sul Covid (“Vaccinarmi? Non ci penso proprio…”) e sulla voglia senile di mettersi in gioco da allenatore all’età che hanno Mick Jagger e Orietta Berti, Rivera è un classico da cineteca buono per tutte le piattaforme: è il Golden Boy che debutta sedicenne, la prima Coppa dei Campioni vinta da un’italiana a Wembley, il primo Pallone d’Oro made in Italy, Italia-Germania 4-3 e i sei umilianti minuti con il Brasile in finale, è la guerra con gli arbitri, le polemiche con Gianni Brera, la staffetta con Sandrino Mazzola, il sindacato calciatori, gli amori da gossip e Padre Eligio, il tram con Beppe Viola ed Eccezziunale veramente, il paron Rocco e il governo con Prodi alla Difesa, proprio lui balestra per le frecce dell’attacco, imprevedibile anche in politica. Ma mai rottame del Novecento, mai nostalgia canaglia, più smartphone che telefono a gettone. Nell’era del tempo reale, delle notizie che nascono e muoiono in un istante e della memoria dimenticata di Rivera si parla un giorno sì e l’altro pure, basta farci caso perché è come una musichetta di sottofondo tra i rumori assordanti del bar della stazione. A 64 anni dal debutto nel calcio, a 44 dall’addio e a 80 anni da compiere tra sei giorni il Golden Boy non è mai uscito dal campo. Entra ed esce dalle righe dei giornali. Su Rivera c’è sempre qualcosa da dire, qualcosa che non sai, qualcosa di nuovo che esce, una biografia in continuo aggiornamento, che si arricchisce con il tempo di episodi inediti, una fiction a puntate senza fine come Beautiful, nonostante il fatto che gli ultimi bambini che lo hanno visto giocare abbiano come minimo cinquant’anni e che per tutti gli altri Rivera sia solo un video su YouTube.

Senza andare troppo indietro basta dare un’occhiata ai media degli ultimi mesi per capire che Rivera, basta la parola, è un sigillo imperiale che nobilita qualunque messaggio anche il più umile, senza limiti di tempo. Se un quotidiano dedica una pagina a Beniamino Vignola e alla sua nuova vita da imprenditore di componenti per auto l’ex juventino confessa: “Da piccolo volevo diventare Rivera: a Verona, dove sono nato e cresciuto mi chiamavano il Rivera dell’Adige”. Se il redivivo Giussy Farina si concede dopo anni alle confidenze, sempre a tutta pagina, trova modo di rivelare, isolato in un sommario perché la cosa non sfugga, che “mentre a Milano attraversavamo la strada con Nereo Rocco, Rivera stava per finire sotto il tram. ‘Ti xe propio un mona’ lo sgridò il Paron…”. E se lo scudiero Giovanni Lodetti viene interrogato per raccontare le atmosfere dei raduni estivi appena ricominciati ecco un’altra chicca su quegli allenamenti infiniti senza pallone: “Dicevamo a Gianni: diglielo te a Rocco di darci il pallone. Perché sempre io? rispondeva. Perché a te ti ascolta… E il pallone sbucava fuori come per magia…”. Evaristo Beccalossi lo schiera su un settimanale sportivo nel suo undici ideale di sempre perché “prima di un derby, lo incrociai nel tunnel che porta al campo. Io ero un bambino, lui il mio idolo insieme a Sivori. Gli chiesi: “Posso toccarti? Si mise a ridere…” 

Ci sono grandi rivali ancora incazzati con lui come Gigi Riva che, a tutta pagina, si lamenta: “Non ho ancora digerito il Pallone d’Oro dato a Rivera e non a me. Mi era stato promesso che l’anno dopo sarebbe toccato a me ma mi sono fatto male”. E grandi rivali come Sandrino Mazzola che esprimono gratitudini postdatate su quell’Italia-Brasile tre a zero a San Siro contro Pelé: “Toccava a lui, ma Rivera fece battere a me il rigore decisivo”. Ma ci sono anche intere carriere di calciatore consumate ai confini della gloria riscattate e illuminate da un attimo di eternità, quello dell’incrocio con “Lui”. Come  quando se ne va Ezio Vendrame, il George Best vicentino, per certificare la sua gloria incompresa scrivono di lui: “Divenne famoso per quel tunnel fatto a Gianni Rivera con la maglia del Lanerossi Vicenza”. 

Il Golden Boy è l’unità di misura con cui si giudica il calcio algoritmato e arabeggiante di oggi: non ci sono più le bandiere nel calcio come Rivera, non ci sono più i numeri 10 come Rivera, ai tempi di Rivera i calciatori mica guadagnavano tutti questi soldi, chissà oggi uno come Rivera quanto varrebbe, chissà se uno come lui sarebbe andato in Inghilterra o, peggio, in Arabia. Senza dimenticare il Var e la sua mamma moviola: sapete chi l’ha inventata? Lui, certo, quel gol-non gol nel derby 1967 è ancora un cold case, un rompicapo per Gil Grissom e i suoi Csi. Un modello di confronto che esonda nel costume attraverso il patinato Vanity Fair che, chiacchierando di tagli di capelli iconici, ricorda che la riga laterale dei capelli resa famosa dal Golden Boy ha oggi un dettaglio più moderno, è rasata ed è tornata di gran moda. L’erede di Rivera insomma più facile trovarlo dal parrucchiere che sui rettangoli di gioco.

Non basta la conta dei voti per eleggere il Capo dello stato, dove c’è sempre qualcuno che infila il suo nome nell’urna, o l’eterno Quattro a tre, ripetuto all’infinito, diventato film, commedia, romanzo, fumetto, paradigma generazionale e metafora dell’esistenza. C’è che Rivera è una citazione che attira, un articolo che si legge di sicuro, una griffe elegante, un Valentino che si sfoggia volentieri in qualunque occasione. Si ricorda Carla Fracci? Come dimenticare il “suo idolo Gianni Rivera e la passione trasmessa dal papà sergente maggiore degli alpini e tranviere casciavit”. Si celebra lo scudetto milanese del basket? Ecco Ettore Messina dire: “A 6-7 anni mi regalarono una maglietta rossonera. Mia nonna cucì il numero 10, quello di Rivera”. C’è da fare il coccodrillo a Idris, supertifoso juventino della tv? L’unica foto che lo racconta è quella con Rivera in Campidoglio in posa scherzosa che fa il paio con quella che illustra la pagina sulla Milano di Beppe Viola, lui e il Gianni insieme allo stadio, seri seri, a guardare una partita. “Il mio vicino di branda al militare era Rivera – non resiste all’elegia il coetaneo Vittorio Feltri – Immaginavo che questi si desse un sacco di arie, però mi sbagliavo. Era mite e generoso”. Racconta di come fosse scarso (Feltri, non Rivera…) “mi faceva degli assist come solo lui sapeva scodellare. Segnai anche un paio di gol che non avrebbe sbagliato neppure mia nonna”. Dicevano di Gianni Rivera che pur correndo poco sapeva essere dappertutto, non ha mai smesso di essere se stesso. Di quel ragazzo, siatene certi, sentiremo ancora parlare… 

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