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Il Foglio sportivo

Gli ottant'anni di Bianchini, vate di un basket che rimpiange i suoi anni

Umberto Zapelloni

L’unico coach ad aver vinto lo scudetto in tre città diverse. Il simbolo di una stagione che ha trasformato il basket italiano facendolo uscire dalle pagine delle riviste specializzate per occupare spazi sempre più importanti

Per avere la conferma che Valerio Bianchini, uno dei più illuminati e luminosi allenatori del basket italiano, compie 80 anni devi fidarti di Wikipedia. Perché quando lo senti parlare ti sembra molto, ma molto più giovane. Ha la saggezza dell’età, ma il pensiero rapido della gioventù. È ancora oggi l’unico coach ad aver vinto lo scudetto in tre città diverse: Cantù, Roma e Pesaro. Ha reso grande la provincia e grandissima la Capitale che però ha sempre preferito un altro pallone a quello a spicchi. Ma soprattutto è ancora oggi il simbolo di una stagione che ha trasformato il basket italiano facendolo uscire dalle pagine delle riviste specializzate per occupare spazi sempre più importanti. Insegnava il basket, ma soprattutto indicava ai suoi giocatori la strada per diventare uomini oltre che campioni. Per questo era soprannominato il vate. Lui sognava l’impossibile e spesso gli capitava di realizzarlo.

Ci ha provato anche sulla panchina della Nazionale, raccogliendo poco, ma insegnando molto perché sapeva essere anche una guida per tutto il movimento. Oggi che fa il nonno e si diverte ad arricchire la sua pagina di Facebook con pensieri mai banali, continua a parlare di pallacanestro come un tempo e a farcire i suoi discorsi con quella cultura che non fa mai pesare, ma che viene da lontano. Nei suoi anni d’oro aveva un avversario più avversario di tutti gli altri: Dan Peterson. Sapevano litigare come nessun altro. Sapevano usare le parole come pochi altri. Sono stati Mourinho quarant’anni prima. Ancora oggi quando si incontrano danno spettacolo. Li staresti a sentire per ore perché sanno vedere il basket e lo sport in modo diverso, originale. Bianchini, per esempio, non sopporta il tiro da tre punti. Lo annoia. Così come non gradisce più di tanto la Nba dove l’atletismo ha ormai sorpassato la tecnica. “Non è per un basket dove l’unica cosa che conta è fare canestro e prendere rimbalzi”, ha raccontato a Emanuela Audisio. Ha sempre preferito la pallacanestro dei college da cui ha preso tanto. Si è innamorato del basket giocandolo in un campetto di Milano e poi andando a sedersi dietro ai canestri del Palalido. Viene da Milano, ma dell’Olimpia è sempre stato solo un grande avversario. 

Ha costruito lontano da quella che è stata la sua città, diventando romano d’adozione in una città in cui qualche anno fa aveva anche aperto una piccola, ma grande libreria. Il basket e i libri, i suoi compagni di viaggio insieme alla moglie Marina che gli ha insegnato ad amare il teatro. Ci sarebbe bisogno di un Bianchini nel basket di oggi in cui almeno regna uno dei suoi allievi prediletti, quel Sergio Scariolo che, dopo esser cresciuto alla corte del barone Sales a Brescia, approdò a Pesaro accanto al vate.

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