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ciclismo

L'impresa dolorosa di Adrien Petit al Tour de France

Giovanni Battistuzzi

A volte nel ciclismo è una vittoria arrivare al traguardo. Nonostante i tagli, le botte e le ferite il corridore francese ha terminato le prime due tappe alpine della Grande Boucle

Adrien Petit non vincerà mai un Tour de France, difficilmente potrà salire sul podio di una grande corsa a tappe o in una di quelle classiche che danno prestigio a una carriera. È uno dei tanti che nel gruppo non hanno il compito, l’onere e l’onore, di vincere, uno di quei corridori che donano se stessi, le loro fatiche, agli altri. Non è uomo da fughe solitarie alpine, nemmeno collinari, il suo lavoro di solito lo svolge in testa al gruppo per cercare di rovinare i piani di chi cerca di fuggire dagli altri in cerca di una giornata felice, vincente. Non lo fa per cattiveria, non può fare altro: ordini di squadra.

Adrien Petit è nato ad Arras quasi trentatré anni fa. “Terra dura l’Artois” – regione che fu, ora Pas-de-Calais –, scriveva il romanziere Georges Bernanos. “Terra che insegna che per ottenere qualcosa serve adattarsi e non smettere di lottare, essere più duri delle pietre”. Adrien Petit lo ha messo in pratica in bicicletta, trovando nel dipartimento vicino, il Nord, sulle pietre verso Roubaix la dimensione preferita. Non si conclude tre volte tra i primi dieci la Parigi-Roubaix se non ci si riesce ad adattare, se non si è più duri delle pietre.

Non si riesce nemmeno a fare ciò che Adrien Petit ha fatto nel corso delle prime due tappe alpine di questo Tour de France. Non ha vinto, non vincono (quasi) mai tra le cime delle Alpi i corridori come Adrien Petit. Ha fatto qualcosa però di straordinario comunque. E’ arrivato all’arrivo, trentotto minuti dopo Carlos Rodriguez a Morzine e trentacinque minuti dopo Wout Poels a Saint-Gervais Mont Blanc. Non era scontato. Non lo è mai quando si ha un taglio di oltre una decina di centimetri di lunghezza sul muscolo tibiale, uno di una mezza dozzina di centimetri sotto una natica e dolori sparsi in tutto il corpo per essere caduti e aver attutito la caduta di altri.

Camminava con difficoltà, faceva fatica a piegarsi e a piegare la gamba e basta aver mosso i pedali una volta sola nella propria vita per capire quante volte si piega una gamba in bicicletta. Avrebbe potuto lasciare il Tour de France, farsi accompagnare all’ospedale e tornarsene a casa. Nessuno l’avrebbe biasimato. Aveva davanti 146 chilometri da pedalare e oltre 4mila metri di dislivello da salire, sabato; 179 e 4.500 domenica. Li ha percorsi tutti, non è nemmeno arrivato all’ultimo posto: le Grande Petit.

Domenica è stato premiato dal Tour de France come combattivo di giornata, il riconoscimento che l’organizzazione dà al termine di ogni tappa “a chi ha dimostrato più impegno, generosità e il miglior spirito sportivo”, dice il regolamento. Spesso il Tour si era dimenticato di chi lotta come un dannato per arrivare al traguardo.

 

Foto A.S.O./Pauline Ballet
 

“È un peccato essere dovuto cadere per salire sul podio, ma è un piacere, è un bel riconoscimento”, ha commentato Adrien Petit sceso dal palco delle premiazioni. Ha poi aggiunto: “Oggi ho vissuto un calvario e non lo augurerei al mio peggior nemico”. Lui l’ha sopportato, perché i corridori come lui, quelli che sanno che il ciclismo è fatica ma soprattutto sacrificio, non pensano quasi mai a loro stessi. Sopportano, perché prima o poi qualcuno avrà bisogno di loro e non possono che farsi trovare presenti.

Botte, tagli, dolore e un numeretto colorato, quello che fu rosso e ora è di una tonalità che non si capisce se è oro od ocra, da esporre sulla maglietta oggi che il Tour riparte dopo il giorno di riposo.